venerdì 26 gennaio 2024

Rita Mascialino, La canzone siciliana 'Brucia la terra' di Nino Rota e Giuseppe Rinaldi (Il Padrino III)

Voglio qui dare non un'analisi completa, ma un cenno esegetico della canzone siciliana tanto emozionante e bella ‘Brucia la terra’ di Nino Rota e Giuseppe Rinaldi, cantata insuperabilmente da Franc D'Ambrosio, attore e cantante italo-americano in una sinergia intensamente commovente di musica, voce, parole, la quale colpisce il petto come un vero e proprio fendente fisico superando i confini della serenata, una serenata triste e accorata in ogni caso. Franc D'Ambrosio nel film interpreta il personaggio di Anthony Corleone, figlio di Michael.


Brucia la Luna n´cielu/e ju Bruciu D´amuri./Focu ca si consuma/comu lu me cori.//
L´anima chianci addulurata./Non si da paci/ma cchio mala Nuttata.//
Lu tempu passa/ma non Agghiorna./Non c´é mai suli/S´idda non torna.//
Brucia la Terra mia/e abbrucia lu me cori./Cchi siti D´acqua/idda e ju siti D´amuri.//
Acu la canto/La me canzuni/si non c´é nuddu/ca s´a affacia a lu Barcuni.//
Brucia la Luna n´cielu/e ju Bruciu D´amuri./Focu ca si consuma/comu lu me cori.//

https://www.cosmopolitan.com/it/lifestyle/cinema/a44732481/sofia-coppola-il-padrino/

La canzone è offerta all’amata dall’uomo abbandonato che attende invano che la donna torni da lui e appaia al balcone. Ma la nottata è ‘mala’, cattiva e nessuno si affaccia e allora la luna, il cielo, la terra e il sentimento disperato che non trova soluzione bruciano in un unico incendio nella notte solitaria dell’uomo. Nella prima superficie si tratta della serenata dell’uomo alla donna perché torni da lui, donna che tuttavia è sempre anche simbolo incontestato di vita - è colei che dà la vita divenendone simbolo. La serenata potrebbe anche essere, come in un mio breve studio, anche falso se fosse soltanto effluvio dei sensi o di volontà di potere sulla donna. Tuttavia il testo della canzone assieme alla musica non testimoniano di prepotenza o prevaricazione, solo di speranza, di sommessa speranza espressa nel pianto, speranza di vita, di amore per la vita che senza la donna svanirebbe - l'uomo vorrebbe vivere ancora e per questo ha bisogno d'amore che gli può dare la sua donna, comunque una donna. La situazione dell’uomo, espressa in musica e parole, voce, dell’essere umano che resta solo e abbandonato da chi ama o amerebbe, si presta, come accennato più sopra, a varcare il limite del contingente per invadere l’universale: la disperazione impotente dell’umanità di fronte al rifiuto di sé da parte degli altri, ciò che si verifica, se non per tutti perennemente, senz’altro per tutti una volta o l’altra e proprio quando si espone senza scudo il proprio cuore più vero altrimenti corazzato. L’uomo chiede e chiede amore, affetto alla donna che prega di ritornare, ma non trova corrispondenza alcuna e resta fuori dalla casa nella notte con il suo lamento quasi sussurrato, non un canto a tutta gola, ma un singhiozzo per la vita che pare spezzata, espresso con voce tremante e accompagnato da una chitarra che non prevale, ma esprime quasi soffocata l’interiorità ripiegata in se stessa dell’uomo che riconosce il suo bisogno di affetto e prega, ma deve rinunciare. Nel contesto più ampio e profondo schiuso dalla canzone, così risultano tutti gli esseri umani di fronte alle proprie preghiere non ascoltate, non esaudite ormai più né dagli uomini, né dalle tante divinità, madonne comprese, alle quali nella disperazione dell'inevitabile perdita della vita si rivolgono, umani che devono stare fuori dalla porta, cacciati via anche dal regno delle illusioni, come nella canzone splendida che si addice non solo alla donna amata, simbolo materno comunque principe per gli affetti, ma anche alla vita stessa - il tempo passa, dice la canzone, passa nella mala nottata - nella vita stessa - e il sole, la vita, non compaiono più se la donna che li rappresenta non si affaccia, non torna a far vivere l'uomo. E nella vita ciò accade più spesso di quanto si possa ritenere mentre siamo sicuri e protetti negli affetti, quando si possono avere. La canzone citata scatena negli ascoltatori, secondo la dinamicità delle proprie sinapsi, la sofferenza esistenziale più cruciale, quando vorremmo che qualcuno ci aprisse ancora la porta della vita alla fine dei nostri giorni e nessuno la apre perché non c’è nessuno che senta e ascolti la nostra preghiera, solo si apre la porta del più triste – pasoliniano – infinito che chiude quella della vita per sempre. Può sembrare strano, vista la violenza non dissociabile dalla personalità dei maschi, che la musica sia dominio incontrastato maschile, ma per creare arte, specialmente musica, occorre avere audacia, una forma di audacia e violenza non cruenta intrinseca alla più potente creatività, comunque e sempre audacia, energia psichica e i maschi possono averla, nella musica in particolare sia che si tratti di canzoni, opere liriche, sinfoniche e simili, in tutti i generi musicali.
Ancora una nota di tipo personale.

Rita Mascialino




Video: https://www.youtube.com/watch?v=4hrwL0b50Zo : Canzone “Brucia la terra” di Nino Rota e Giuseppe Rinaldi cantata poco prima della tragedia finale della vicenda.

Immagine: https://www.pinterest.es/pin/294845106837725932/ : Sofia Coppola, la figlia super stupenda e bravissima del regista, in una immagine del finale della III parte del film “Il padrino”, poco prima di morire come innocente essere sacrificale.

Immagine: https://www.pinterest.it/pin/243405554837019885/





venerdì 19 gennaio 2024

Rita Mascialino,  Sul participio presente nella lingua inglese - 

Rubrica condotta da Rita Mascialino Psicologia e logica dei popoli in Rivista Culturale OCEANONEWS - Direttore Vito Massimo Massa, Caporedattore Maria Teresa Infante La Marca 


Fotografia: 10 febbraio 2024 'STUDIO FOTOGRAFICO VALENTINA VENIER' Udine-Via Grazzano 39 - Tel. 345 34 63 650

https://it.wikipedia.org/wiki/Lingua_inglese_antica#/media/File:Beowulf.firstpage.jpeg

Prima di occuparci di alcuni risvolti semantici dell’assunto a monte di questo studio rimando al fatto che l’inglese, come tutte le lingue indoeuropee appartenenti al ceppo germanico, non conosce il gerundio, ma solo il participio presente – al proposito l’indoeuropeo stesso per come è ricostruito dagli specialisti attraverso testi e comparazioni con le lingue che condividono tratti comuni derivati da un supposto ceppo unico o protoindoeuropeo,  non ha prodotto il gerundio, bensì il participio presente che si trova appunto in tutte le lingue cosiddette indoeuropee. In ogni caso, il participio presente copre in inglese anche le funzioni proprie del gerundio e dell’infinito volendo andare a differenziare funzioni che sono rappresentate in ogni caso spesso da una unica forma, quella del participio presente o, per semplificare, forma in -ing. Quanto al gerundio, esso è una produzione originale e specifica dell’antico latino nella sua evoluzione diretta nel latino classico con prestiti da vari sermones e nell’italiano. Sintetizzando per sommi capi: il participio presente o aggettivo verbale qualifica un processo relativo a un’azione in corso di svolgimento, giocatore perdente. Il gerundio – lasciando qui stare il gerundivo da cui pare (Risch 1984: Berlin NewYork: de Gruyter) si sia andato formando il gerundio e che non riguarda questo studio – esprime pure azioni in corso di attuazione nei casi mancanti dell’infinito verbale, il genitivo, l’accusativo, l’ablativo – il dativo, presente nell’antico latino, è andato scomparendo già nel latino classico. Il gerundio esprime diverse modalità dell’azione: strumentale, causale, temporale, condizionale e così via. 

Veniamo adesso al tema specifico che interessa questi appunti. Nella lingua inglese il participio presente, la forma verbale cosiddetta in -ing per comodità di identificazione, sta al centro del modo di intendere la vita entro tale cultura linguistica, ossia: costituisce il fulcro della personalità del popolo di lingua madre inglese. Il participio presente, unito al verbo essere, to be e sua coniugazione, rende la forma verbale progressiva o continua, ossia esprime un’azione in corso di svolgimento in tutti i tempi, in diatesi attiva e passiva, invadendo per così dire l’azione a tutto campo e non restando limitato, quanto a formazione della coniugazione, a qualche tempo. Il participio presente si usa in inglese anche in non poche altre forme che niente hanno a che vedere con il corrispondente italiano, per fare un solo esempio: Thank you for remembering me, Grazie per esserti ricordato di me, Grazie per avermi ricordato, in inglese: Grazie per ricordante me, molto diverso come modo di intendere l’azione e senz’altro più dinamico, arditamente dinamico, è come un attacco vicino e diretto – gradito nella fattispecie – alla persona ricordata, manca ogni forma intermedia che ponga una certa distanza. Comunque: in italiano si rende la forma progressiva inglese con il gerundio, facendo corrispondere, in apparenza, le due forme, tuttavia in realtà non c’è una vera e propria corrispondenza. Di fatto, se noi traduciamo, per capire come stiano le cose nelle due lingue, la forma in -ing per quello che è, si hanno due forme della mente molto diverse, ossia questa forma che percorre tutta la lingua inglese – e ovviamente l’americano – mostra esplicitamente il suo volto: He is eating, viene ridato in italiano o con il semplice presente Egli mangia – non essendo obbligatorio l’uso della forma progressiva – o Egli sta mangiando, mentre in inglese la forma significa solo Egli è mangiante, non esistendo in tale lingua il gerundio, come più sopra esclusiva produzione del latino passata direttamente nell’italiano. Nell’essere mangiante prevale l’azione al punto che l’individuo che compie la stessa quasi viene assorbito in essa, quasi trasformato dinamicissimamente nell’azione stessa, ossia l’individuo diviene per così dire l’azione. James was running, in italiano Giacomo correva, Giacomo stava correndo, nell’italiano corrispondente all’inglese Giacomo era corrente. Chiarendo ancora: in che modalità si trovava Giacomo? Quella della corsa, era corrente, forma espressiva che enfatizza l’azione, non il soggetto che certo non sparisce, ma sta come in secondo piano rispetto all’azione che sta compiendo. Inoltre in italiano, come più sopra, c’è il verbo stare che in sé esprime ed enfatizza la stasi. Continuando con alcuni esempi: Domani a quest’ora partirò, obbligo di forma progressiva in inglese: Domani a quest’ora sarò partente, At this time tomorrow I will be leaving, dove è in primo piano semanticamente l’azione del partire nella sua dinamicità che per così dire trasforma quasi l'individuo. Per altro vediamo come il futuro, che in inglese non c’è come coniugazione a sé stante, esiste, almeno per ora, solo come presente, ossia tutti i futuri in inglese sono dati da uno o l’altro tipo di presente, nella fattispecie con il modale will, voglio: Domani voglio essere partente per Domani partirò, ciò che di nuovo enfatizza l’azione come volontà di agire, più debole in un futuro a coniugazione divenuta specifica del futuro. In ogni caso l’accoppiamento del verbo stare con il gerundio come nella forma progressiva italiana corrisponde logicamente parlando ad un’unione impossibile: quella della totale stasi con la modalità di un moto in corso di svolgimento. Dal punto di vista logico tale contrasto tra stasi e moto è identificabile certo come una contraddizione in termini, di cui per altro nessuno si accorge tanta è l’assuefazione in generale alle contraddizioni logiche sparse nella lingua italiana attraverso i modi impliciti del verbo, ma dal punto di vista psicologico la citata contraddizione sul piano logico tra stasi e moto riflette un’attitudine tipica del modo di pensare nel popolo italiano: la difficoltà ad abbandonare la stasi, ossia l’ancoraggio più tenace alla stasi piuttosto che alla dinamicità. Da un lato si ha la conservazione più forte espressa dalla presenza del verbo stare, immobilità quindi, dall’altro la presenza del moto in un’unione dove pare che il verbo stare tenga quasi alla catena e comunque senz’altro rallenti, per il possibile, i moti, l’azione. Già Varrone citava un antico proverbio latino molto significativo per la personalità del popolo romano, oggi italiano: Romanus sedendo vincit (Varrone 37 a.C.: De re rustica), Il romano vince stando seduto, ossia senza agire dinamicamente. Il gerundio mette l’azione progressiva, che pure rappresenta, nella stasi più completa grazie all'unione con il verbo stare, nella fattispecie con lo stare seduti, ciò in un capolavoro di ironia piuttosto corrosiva. Questa tendenza insita nella latinità, dalle origini antichissime, può implicare e di fatto implica la presenza suppletiva di strategie anche molto astute utilizzate per ottenere le mete con il minimo sforzo ove possibile, ma qualifica più profondamente, secondo la semantica intrinseca alla morfologia divenuta uso comune non abbandonato, il genio latino-italiano: lo stare fermi - o la conservazione - che prevale, ovunque possibile,  sull’azione, la stasi in luogo dell’azione qualora questa si possa evitare, mentre in inglese si ha, come accennato, l’enfatizzazione di una dinamicità ad oltranza in un’interpretazione dell’esistere come avventura verso la conquista del nuovo. Ciò non significa certo che tutti gli inglesi o tutti gli americani non siano anche conservatori o altro di diverso, significa solo che negli usi e costumi linguistici, morfologici e sintattici oltre che lessicali, ossia fondamentalmente, troneggi imponente la tendenza all’azione, al dinamismo, al nuovo, all’esplorazione dell’ignoto con i rischi derivanti, la quale tanto spazio ha ad esempio nell’immaginazione di Edgar Allan Poe per citare un poeta e narratore emblema della personalità anglo-americana sul quale qui non ci soffermiamo, ma solo rimandando l’approfondimento linguistico ad altro studio. Nell’inglese non domina dunque la propensione alla stasi, al vecchio, che troneggia al contrario ben strutturata, come vedremo in altri studi specifici, ovunque possibile nella lingua italiana, certo anche qui non sempre e non in tutti gli individui, ma senz’altro a livello degli usi e costumi appunto linguistici instaurati e più comuni da secoli, anche da millenni partendo dal latino come nel proverbio citato da Varrone valido per una tendenza, insita negli usi e costumi linguistici, dei corrispondenti usi mentali psicologici e logici, nella personalità di base dei parlanti questa lingua data la grande diffusione del modo implicito del gerundio. Certo, sull’uso del participio presente e del gerundio nella forma progressiva e in altri contesti espressivi in inglese e in italiano c’è moltissimo da dire, un mondo infinito da indagare dal punto di vista della semantica con agganci agli ambiti artistici e scientifici, in generale comportamentali come Psicologia e logica dei popoli, si è qui voluto dare solo qualche dettaglio fondamentale, ma ci torneremo sopra più avanti, dopo aver dato lo  spazio a diversi dettagli logici e psicologici della semantica intrinseca anche di altre lingue.                                                                                                                                                                                                                               

                                                                                                                   Rita Mascialino









Rita Mascialino, Sulla composizione del lessico tedesco - Appunti di semantica

Rubrica condotta da Rita Mascialino Psicologia e logica dei popoli in OCEANONEWS, Rivista  Culturale, Direttore Vito Massimo Massimo Massa, Caporedattore Maria Teresa Infante La Marca.


Fotografia 10 febbraio 2024: 'STUDIO FOTOGRAFICO VALENTINA VENIER' Udine-Via Grazzano 39 - Tel. 345 34 63 650



Immagine: Rita Mascialino con la Prof. dell'Università di San Pietroburgo, Capo Dipartimento di Scienze Cognitive, Tatiana Chernigovskaya poco prima dell'intervento al Congresso Mondiale IASS/AIS, tema del Congresso: Understanding and Misunderstanding, Helsinki, 2007; Sezione Filosofia della Mente, studio di Rita Mascialino: The Dynamic Spatiality of understanding and misunderstanding.

PSICOLOGIA E LOGICA DEI POPOLI 

 Sulla composizione del lessico tedesco

di Rita Mascialino

 

Una caratteristica semanticamente molto connotativa del lessico tedesco, riscontrabile a tutto campo nella lingua e alla base della produzione dei neologismi tecnici e non tecnici, è la speciale articolazione dei concetti in termini composti ciascuno di più termini e relativi concetti. Tale peculiarità si inserisce in una visione il più possibile analitica del reale e nel contempo sintetica.

Prendiamo un paio di esempi per introdurre l’argomento: Augenblick, attimo in traduzione italiana – non ci occupiamo qui di tutte le possibili corrispondenze sinonimiche cosiddette che non interessano l’assunto. In italiano non sono visibili due parole, in tedesco sì: Auge-, occhio, dalla radice indoeuropea *ok, e -blick, sguardo, dall’antico alto tedesco blicchen-blicch nel significato originario di irradiare, splendere come accendersi, illuminarsi, ossia aufleuchten. Il significato attuale di blicken come guardare è derivato direttamente dal significato di strahlen, irradiare, inviare come raggio-strale, quindi rapidamente, come lo sguardo fosse anticamente considerato come un raggio, Strahl, inviato in linea retta dall’occhio, anche Pfeil, freccia, dardo, sugli oggetti, sugli esseri viventi, fenomeni in generale, eventi e simili. Si tratta di un’interpretazione di un antico modo di comprendere l’esperienza relativa all’attimo associato allo sguardo, capace di percepire velocemente, quasi di colpire rapidamente. Tutti ricordiamo i versi del Metastasio: “(…) Non si trattien lo strale Quando dall’arco uscì (…)”, strale rapido che si riferisce tuttavia non agli occhi, allo sguardo, ma alla parola come già la voce in Orazio, intese queste come strali, raggi e dardi – diversità semantiche a livello linguistico tra le varie culture, tra l’altro: meno propensione all’azione concreta nello strale di Metastasio, italiano, più propensione all’azione concreta nello strale del termine tedesco.

Tornando al nostro esempio, nella citata parola composta vi è originariamente e semanticamente una componente interessante per come veniva inteso lo sguardo, Blick, in un passato ormai abbastanza lontano, ma ancora presente nell’eco che accompagna il sostantivo: quasi come il lancio – rapido – di un’arma, quasi gli occhi fossero due armi essi stessi, capaci di lanciare metaforici strali, frecce, dardi. Una nota di conferma di quanto asserito: nel tedesco, quando si guarda qualcosa con il verbo blicken, si usa la preposizione auf , su con contatto, reggente l’accusativo, caso che nella fattispecie che indica il moto. Quale moto? Quello dei raggi che partono dagli occhi come strali e colpiscono ciò su cui si dirigono. Ciò fornisce sul piano psicologico e logico una visione dell’uomo che guarda stando in guardia, si perdoni il bisticcio, per difendersi da attacchi di altri o di altro, e che mandi in avanscoperta i suoi occhi messaggeri per vedere – e colpire – eventuali nemici, in un’ottica psicologica senz’altro aggressiva come sta espressa nell’antica semantica del termine in questione, ancora oggi in uso. Come accennato, la lingua tedesca mostra grande attenzione verso la più esatta spazialità delle azioni, dei moti che ovunque possibile specificano in dettaglio le direzioni collegate, ciò che si riflette anche nei sostantivi all’occorrenza, ossia i moti hanno esplicitazione per il possibile – per altro la lingua tedesca è lingua dell’esplicitazione ad oltranza, tutto deve essere chiaro e chiarito, ciò che rende possibile e agevola la migliore organizzazione dell’esistere. Questo risulta particolarmente consono anche nelle azioni belliche: rapidità, precisione massima, analisi e sintesi, sempre nella velocità. I tedeschi sono esperti soprattutto nella tristemente famosa guerra lampo o BlitzkriegBlitz collegato anche all’antico alto tedesco blic, medio alto tedesco blik nel senso di raggio di luce, rapido come il lampo, lo strale e simili.

Si può vedere in aggiunta come l’analisi sparsa a tutti i livelli nella lingua tedesca non ne riduca affatto il forte tasso di sintesi capace di evitare qualsiasi tasso, anche minimo, di perissologia del discorso – il tedesco non accoglie in sé il pleonasmo. Abbiamo visto come il sostantivo Augenblick, pur analiticamente composto, esprima una sintesi molto significativa dell’azione del guardare rapidamente e quindi del significato di attimo – che nei termini corrispondenti italiani appunto non c’è –, abbiamo visto come l’unione di gettare lo sguardo come uno strale onde significare momento, attimo e simili sia qualcosa di molto più dinamico che l’italiano corrispondente, il quale prende in considerazione solo il tempo in generale, senza specificazioni visibili e collegamenti ad azioni come al contrario in Augenblick e soprattutto senza riferimenti a occhi e strali qualsiasi, ciò che apre scenari psicologici e logici diversi. Per finire, il termine Augenblick, scomposto nella sua semantica vicina e lontana, ci fa anche visualizzare l’attimo nel suo risvolto psicologico e logico concreto, nonché il tipo di uomo nell’azione rapida, dell’attimo, con lo sguardo capace di vedere immediatamente, dinamicamente e per così dire di colpire ciò che vede.

Facciamo ancora un esempio, questa volta riferito ai verbi, spesso composti con particelle di vario significato che, tanto per cambiare, dettagliano i moti intrinseci all’azione concreta o astratta che sia e che, pur analitici in ampio grado, mostrano anche una sintesi molto compatta dell’azione stessa. Al proposito prendiamo in considerazione il verbo herbeipfeifen che in italiano ha bisogno di più parole adatte ad esprimere il medesimo concetto analitico e sintetico nel contempo. Vediamo come. Il prefisso di moto è composto della particella her, che indica avvicinamento a chi parli o comunque al soggetto dell’azione ed esprime anche l’avverbio qui in moto di avvicinamento come nell’usuale sintagma komm her, vieni qua – stato in luogo hier. Il prefisso herbei è composto anche della preposizione bei che indica lo stato in luogo presso, vicino. Le due componenti sono apparentemente in contrasto, ossia un moto e uno stato assieme, ma: un moto per la direzione dell’azione e l’arresto del moto presso la persona nella fattispecie. Il verbo pfeifen significa fischiare, quindi: fischiare per fare avvicinare fino a fermarsi presso la persona che fischia, in italiano: chiamare fischiando o chiamare con un fischio, in ogni caso servono più parole per esprimere l’azione intrinseca all’unico termine composto tedesco, ribadendo: pur analitico ben più che l’italiano, ma anche esprimente una logica più stringata – la lingua tedesca, come sopra accennato, pur nel dettaglio più minuto non conosce la perissologia nel formulare concetti. Ciò rimanda alla connotazione psicologica sia di una notevolissima attenzione al dettaglio, sia di una altrettanto notevole dinamicità e sintesi proprie della personalità del popolo tedesco, dinamicità e sintesi che possono corrispondere anche a una certa aggressività dell’azione, potenzialmente precisa e rapida nel contempo. Tale caratteristica, visibile non solo nei sostantivi e nei verbi tedeschi, ma appunto sparsa ovunque nella lingua a vari anche molto complessi livelli espressivi, centra in pieno la personalità del popolo tedesco per come si rivela o appare sul piano linguistico, nell’ambito semantico relativo alla psicologia e logica dei popoli. 

                                                                                                                                                                                                                                                                                                Rita Mascialino

https://it.wikipedia.org/wiki/Carmina_Burana La Ruota della Fortuna col. 1 r, dal Codex Buranus. Codice  custodito nella Bayerische Staatsbibliothek di Monaco di Baviera.

martedì 16 gennaio 2024

RITA MASCIALINO, LA TETRALOGIA POETICA DI PASOLINI 'A ME FRADI': ANALISI E INTERPRETAZIONE

A proposito dell’assassinio perpetrato nel Bosco Romagno, Friuli Orientale, durante la Resistenza nel febbraio del 1945 nei confronti del fratello Guido, Ermes nel nome di battaglia, mentre era in forza all’avamposto osovano di Porzûs stante al comando del Capitano Francesco De Gregori a difesa sia dai nazifascisti sia del confine orientale del Friuli, Pier Paolo Pasolini scrisse una tetralogia in lingua friulana che sta tra le più toccanti e profonde liriche lasciate in eredità dal poeta. Si tratta di composizioni che, focalizzate sull’evento biografico che funge loro da tragica base, sfumano lo stesso in modo tale da farlo divenire sul piano simbolico evento universale, emblema dell’esistere di tutti sospeso tra gli opposti poli di vita e morte al di là delle contingenze storiche, biografiche, culturali e sociopolitiche in generale, di colpevolezza o meno e pone l'accento sul fatto che chi muore versa spesso sangue innocente, per chiarire con un esempio tratto dalle leggi umane e non solo dalla biografia di Pasolini: spesso non commette nessun reato per essere per così dire punito con la morte e comunque la morte non è certo evento fonte di letizia nella vita dell'uomo.

Immagine: arcipelagoitaca.it


Prima di passare all’analisi, una doverosa parola introduttiva sulla lingua friulana in cui è composta la tetralogia, la lingua madre di Pasolini, di sua madre, del suo gruppo etnico e culturale di origine cui lo scrittore si sentì sempre profondamente legato. La tetralogia, sentita e ideata in friulano, è stata successivamente tradotto in italiano dal poeta stesso, traduzione che sta nel testo citato in calce ad ogni poesia.

Le lingue, maggiori o minori che siano, sono la carta d’identità psicologica e la memoria storica e preistorica, sincronica e diacronica dei popoli e come tali influiscono a loro volta direttamente sulla sensibilità e intelligenza degli individui che in esse vengono addestrati. Ora Pasolini era un appassionato del friulano in cui riconosceva la matrice più originaria e più vera della propria personalità, l’appartenenza alla cultura della madre e in particolare in questo tragico frangente il friulano funge da legame indissolubile con il fratello morto. Il dolore lacerante ha tolto all’uomo e al poeta ogni sovrastruttura culturale acquisita fuori dalla casa materna e ha pertanto trovato la più spontanea e profonda espressione non nella lingua italiana, per così dire una lingua straniera rispetto al friulano e sovrapposta all’originario sentire di chi è stato educato in questa parlata, appunto nella parlata di casa. Per chiarire: la lingua italiana, nel caso di emozioni tanto estreme, avrebbe funto da schermo e da filtro alle emozioni stesse, schermo smantellato dalla sofferenza più grande, così che le emozioni hanno vestito l’abito della mai dimenticata sensibilità codificata ed espressa dal friulano, precedente ad ogni altra cultura definibile come sovrastruttura in quanto sovrapposta alla cultura di base rappresentata dalla visione del mondo portata ad espressione dalla lingua friulana e sempre conservata a memoria degli affetti più profondi. In questo caso se la traduzione italiana rende senz’altro l’idea e l’emozione di quanto Pasolini ha voluto esprimere, il testo friulano resta portatore della personalità più originaria e indelebile data dal friulano all’uomo Pasolini, al poeta, all’artista, a queste poesie. Si tratta di un’emotività, quella intrinseca alla lingua friulana, che si presenta priva, per così dire, dell’abito di gala che sempre le lingue nazionali vestono rispetto al più umile abito delle lingue minori tali per il minore potere che esse rappresentano nella società umana e per il minore sviluppo nel tempo storico. Sempre le traduzioni cambiano o poco o tanto, dipende dal traduttore, l’emozionalità profonda intrinseca agli idiomi, ma questo accade in misura ancora maggiore quando il dislivello si ha tra una lingua minore ad una maggiore. E veramente il friulano qui evidenzia in modo magistrale ed emblematico le sue caratteristiche di base che non sono quelle proprie dell’italiano, caratteristiche che non si hanno o si perdono nella lingua ufficiale italiana, più aristocratica, più di rappresentanza per così dire. Do un cenno relativamente ad un solo importante tratto del friulano, al quale sono direttamente collegate alcune caratteristiche fondamentali della personalità del popolo che parla questo idioma. Il tratto in questione riguarda i suoni specifici del friulano. Sono suoni che si sono formati e si formano in assenza di enfasi come la loro asciuttezza e scarsa colorazione evidenziano. I suoni intrinseci al friulano si rivelano di conseguenza anche non particolarmente adatti ad esprimere sentimentalismi in estetica di superficie, sono suoni che si rivelano idonei al contrario ad esprimere un senso del reale lontano da illusioni qualsiasi. Espressi in tali suoni per nulla appariscenti, gli affetti hanno il tono della contenutezza che dà significato all’accettazione di una interpretazione della vita non immessa in epopee di gloria o vanagloria e priva di eco nel grandioso di apparenza, in quanto tale sempre artificiale, così che quando i sentimenti e gli affetti premono forti e intensi, essi si manifestano di consueto nell’ordine, nella compostezza, senza straripamenti, un po’ come tenendo duro, come vuole la personalità del popolo friulano in generale. Così, ad esempio, l’idioma friulano fa coincidere, al di là di altri possibili modi di esprimere il concetto del parlare e del chiacchierare corrispondenti a diverso significato, appunto il parlare con il chiacchierare nel verbo ciacarà, che significa parlare, non come ironia, ma come normale parlare, e anche chiacchierare, quasi i discorsi siano affini alle chiacchiere in questa ottica rispetto alla necessità delle cose, dei fatti, della concreta realtà dell’esistenza – così il popolo friulano è connotato dalla chiusura di carattere, dalle poche parole. Questa mentalità scarsa davvero di superfluo si trova anche nelle parole di Pasolini a celebrazione del fratello assassinato, le quali per questo ottengono la massima incisività e pregnanza semantico-emozionale, sfumata nella traduzione italiana pur eseguita dal poeta stesso al meglio possibile.

Facciamo precedere la breve analisi dei tratti fondamentali della tetralogia dal titolo A me fradi dal testo.

A ME FRADI
A mio fratello
Incarnation
I vin disfat i secui
Inciarnansi tal mondo,
ciatansi cun un cuarp
ch’al è infinit e unic.

A si è sierat l’ombrena
Davour li nustris spalis,
di nuja doventas
òmis ta un timp imens.

A son un sun i secui
Devant na nustra ongula.
Ciar i sin fas par sempri.
Nustri mar a era virzina.

Incarnazione
Abbiamo disfatto i secoli/incarnandoci nel mondo,/trovandoci con un corpo/ che è infinito e unico.//Si è chiusa l’ombra/dietro le nostre spalle,/dal nulla diventati/uomini in un tempo immenso.//Sono un sogno i secoli/davanti a una nostra unghia./Carne siamo fatti per sempre./Nostra madre era vergine.//

Passion
Subit la muart a limita
Il timp, la lus, la sera.
A cola na fuejuta
Dut il mond al è muart.

Dut ator tal to cuarp
A si figura il nuja;
là ch’al finis il cuarp
ulì a scuminsia il seil.

Al scuminsia un seil trist
mai jodut mai pensat,
ulì tu i no ti sos,
e al ti tocia i ciavej.

Passione

Subito la morte limita/il tempo, la luce, la sera./Cade una fogliolina/tutto il mondo è morto.//Tutto attorno al tuo corpo/prende forma il nulla;/là dove finisce il corpo,/lì comincia il cielo.//Comincia un cielo triste/mai visto mai pensato,/lì tu non ci sei,/e ti tocca i capelli.//

Muart
Crist al à rifiutat
che dols muart di ogni dì;
e la so Crous teribila
a è stat disimintiassi.

Voluntat no pì umana
di lassà chel dols vivi
cun lui stes e so mari
e so fradi tal mond.

O sant sanc innossent,
pojat cu-t-un dolour
che doma un zovin vif
al pos trimant capilu.

Morte
Cristo ha rifiutato/quella dolce morte di ogni giorno;/e la sua Croce terribile/è stata dimenticarsi.//Volontà non più umana/di lasciare quel dolce vivere/con se stesso e con sua madre/e suo fratello nel mondo.//O santo sangue innocente,/disteso con un dolore/che solo un giovane vivo/può tremando capirlo.//

Ressuretion
Me fradi muart al ten
na part di me cun lui
ta chel trist Infinit
ch’al mi scrussia ogni dì.

Un sofli al mi divit
Da lui, e un scur misteri;
qua ch’a brilin lis stelis,
mi lu figuri dongia.

I sint il so respir
tai me ciavej, e il nuja,
una lus infinida
a è dut un cu’l so vuli.

Resurrezione
Mio fratello morto tiene/una parte di me con lui/in quel triste Infinito/che mi angoscia ogni giorno.//Un soffio mi divide/da lui,e uno scuro mistero;/quando brillano le stelle,/me lo immagino accanto.//Sento il suo respiro/nei miei capelli, e il nulla,/una luce infinita/è tutt’uno con il suo occhio.//

Le poesie dunque, come indicano i titoli, hanno struttura echeggiante molto direttamente lo schema esistenziale di Cristo. Pasolini era ateo, come è esplicito anche nelle stesse liriche in questione. Che senso può avere quindi una struttura religiosa? Forse l’autore ha comunque cercato conforto nella religione a fronte del dolore lancinante per la morte del fratello? Avviene in questo ciclo un ribaltamento della più consueta spazialità: nella tetralogia la struttura religiosa non è finalizzata a porre la morte del fratello in un ambiente di concetti e sentimenti religiosi, al contrario essa riceve dal contesto dimensione e orizzonte totalmente umani e Cristo stesso diviene solo uomo. Se tuttavia tale struttura umanizza del tutto l’ambito religioso nella fattispecie biblico-cristiano, certamente essa non è stata utilizzata dal poeta con la finalità ultima di umanizzare la religione, ciò di cui non c’è traccia nella tetralogia. La motivazione per la pur concretamente presente associazione religiosa è altra. Nel sacrificio di Cristo Pasolini vede un uomo tradito dal suo gruppo etnico di appartenenza, dagli ebrei stessi ormai caduti sotto la dominazione dei Romani e agli ordini del prefetto romano Ponzio Pilato. Ciò sta in più di qualche parallelo con quanto accadde al fratello di Pasolini, osovano ucciso da fratelli italiani e in particolare da fratelli in linea di massima friulani che condividevano l’ideologia comunista di Pier Paolo, da suoi fratelli ideali. Grazie a tale parallelo storico in Cristo, Pasolini poté non essere solo a sopportare questa doppia tragedia, poté trovare conforto nella vicenda di Cristo, un uomo che visse una simile parabola esistenziale, tradito dal suo gruppo, abbandonato da tutti, dal padre stesso. Partendo da questo parallelo, Cristo diventa nella tetralogia pasoliniana simbolo dell’uomo martire su questa Terra, combattuto da ogni parte, non capito neanche dai suoi compagni – Pietro stesso lo tradisce tre volte prima di unirsi a lui nel sacrificio. Il farsi carne e nascere, la sofferenza che accompagna l’esistere, la morte come evento della massima tragicità subìto dall’uomo come vero e proprio assassinio non voluto e per il possibile sfuggito, perpetrato contro la sua volontà che è quella di vivere per sempre, ben si adattano ai concetti di incarnazione, passione e morte. La quarta composizione dedicata alla resurrezione completa il breve intensissimo ciclo in piena coerenza con le precedenti parti. Non si tratta di una nuova vita spirituale nell’al di là, come la religione promette ai credenti, la resurrezione avviene sul piano del più triste e devastante ossimoro: il fratello Guido risorge sì, ma nel buio della notte che nasconde le forme e i colori della vita ed assume così l’aspetto della morte di ogni cosa. Nell’immaginazione del fratello vivente, il fratello morto è una presenza che fa tutt’uno con il nulla, il cui occhio si fonde in Pasolini ormai con l’occhio del fratello, un occhio spaventoso che guarda nell’oscurità senza vedere, dotato della luce infinita che proviene dalla non vita, dagli elementi inanimati, dagli elementi indifferenti alla vita. In altri termini: in questa oltremodo tragica resurrezione domina la morte e ha vita la triste nostalgia per chi non c’è più e non ci sarà mai più. La forza dell’immaginazione di chi è rimasto in vita può ricordare e far rivivere il morto, per eccellenza la potenza dell’immaginazione poetica, artistica, che dà composizione al destino dell’uomo rendendolo eterno, di quell’eternità destinata a durare fino a che la vita umana rimarrà su questa Terra. Certo, il poeta si immagina il fratello vicino a sé, ma appunto lo immagina come presenza sinistra del nulla in cui egli stesso si rispecchia, nulla in quanto il fratello non c’è altro che nel suo ricordo cantato dalla poesia, da sempre somma eternatrice della memoria dell’uomo.

Dopo il breve cenno al senso globale e sintetico della tetralogia, passiamo ora ad un cenno di analisi della risonanza semantico-emozionale che gli eventi esistenziali anno suscitato nelle composizioni.

In Incarnation, Incarnazione, il protagonista è il tempo immenso la cui presenza si disfa con l’uscita della vita che lo squarcia distruggendo la sua quiete più immota. Il corpo di ciascun essere vivente esce dal tempo differenziato portandone con sé a memoria del suo destino il tratto più sinistro, l’infinito che coincide con la fine dell’esistere, così che la vita risulta già all’origine proveniente dalla morte, intessuta di morte. Il nulla coincidente con il corpo, l’oscurità che si chiude dietro le spalle appaiono come la casa originaria da cui esce il vivente connotato dal nulla che si porta addosso senza potersene liberare al di là di qualsiasi apparenza e a cui è implicito che debba ritornare alla fine della sua parabola come alla sua casa più vera, per tornare ad essere nulla e disfatto nel nulla. Una semplice unghia di un corpo vivo fa risultare il tempo, i secoli tutti, come un sogno ed un sonno lungo, secondo la suggestiva allitterazione onomatopeica che contrassegna il verso così che secoli, sogni e sonno sono un unico sospiro di cui si sente quasi il fruscio. Si tratta di qualcosa che non ha esistenza, un’unghia simbolica della pochezza degli esseri viventi e nel contempo della grande potenza intrinseca alla vita capace di squarciare l’immobilità e l’immensità del tempo, il suo nulla senza la vita. E una volta viventi, non si può tornare indietro al prima, all’indifferenziato, al tempo in cui ancora non aveva avuto origine la vita, bisogna vivere come un dovere ineludibile, carne per sempre, l’unica forma di vita possibile per gli umani secondo la visione laica del mondo in possesso di Pasolini, una forma per la vita e per la morte. La madre vergine richiama Maria – il “nostra” si riferisce alla madre di ogni uomo come di Cristo, ma in particolare alla madre di Pasolini e del fratello ed è quindi anche la grande madre friulana vista con gli occhi e il cuore del poeta come la custode e rappresentante più pura della più grande forza data dai più puri affetti e sentimenti, dall’amore più incontaminato intrinseco all’essere madre.

In Passion, Passione, si fa immediatamente avanti nel primo verso, il dolore più grande, la morte chiamata con il suo nome, la quale dà un tempo limitato alla vita, all’individuazione del vivente, alla luce, all’oscurità stessa. È una morte capace di scuotere, con la tragedia che introduce nel fenomeno dell’esistere, il mondo intero ogni volta che un vivente cade come una fogliolina dall’albero della vita per entrare nel nulla che attende e che attornia da ogni parte il corpo incarnato come una voragine da cui può uscire una volta lacerandone per così dire il grembo. Anche il cielo si fa in Pasolini simbolo del nulla, del vuoto per eccellenza ed è pertanto un cielo non azzurro, non lieto, bensì triste e che nessuno può vedere mai né pensare propriamente. I morti sono nel nulla e il nulla della vita nessuno lo può vedere né pensare, un nulla che resta ignoto ai morti e ai viventi che dal nulla sono circondati, che nel nulla vivono. In quel cielo privo di ogni vita il fratello morto non c’è, ci sono i simbolici capelli che sono ormai in potere della morte e ne mostrano metaforicamente il potere – nel corpo morto i capelli crescono ancora ed in quanto crescono nella morte collegano il simbolico cielo alla morte, al nulla.

In Muart, Morte, il Cristo pasoliniano non è morto per salvare l’umanità, ma ha niente meno che rifiutato la vita e la sua croce più tremenda è stata proprio il dimenticarsi della vita in cui si muore ogni giorno di quella morte, di quel dolore dolce che permette di vivere nel mondo gli affetti più cari accanto alla madre e al fratello sapendo che si perderanno comunque un giorno. La languidezza degli affetti dunque sentita come dolce sofferenza implicita alla consapevolezza di doverli abbandonare è una felicità troppo pesante a sopportarsi così che la vita stessa viene rifiutata e ad essa viene preferita la croce come simbolo di morte non dolce, ma di dolore. Da sottolineare: le uniche parole scritte con la maiuscola nel corso della tetralogia sono la Croce, in Muart, e l’Infinito in Resurretion, l’ultima parte del poemetto, quasi il dolore sia l’unica cosa che duri anche dopo la morte e l’assenza della vita. In altri termini: la vita viene percepita solo, leopardianamente e sulla scia del sentire del poeta Miguel de Unamuno sul nulla e sul dolore di vivere, come sofferenza cui nulla possa porre sollievo, neanche la morte stessa – la successione delle due parti vede il triste Infinito seguire la morte e la Croce emergere in pieno primo piano nella Resurrezione che vede permanere solo il dolore di chi è ancora in vita e non vede risorgere il morto. E la sofferenza dovuta alla morte cruenta di un innocente non lo può capire certo il nulla che attende indifferente la fine di ogni vita, ma solo una persona giovane, in carne ed ossa, viva, tremante dallo spavento e dal dolore, ossia un giovane che in quanto tale abbia ancora il cuore non indurito dalla vita stessa, possa ancora spaventarsi dell’orrore della morte, possa ancora tremare di paura e anche e soprattutto di emozione.

In Resurretion, Resurrezione, il poeta parla direttamente del proprio fratello morto che ha portato con sé, nella morte, una parte di lui stesso così che essa lo lega al nulla di cui tutti sono fatti e in cui il fratello si è dissolto, come anticipato nella prima composizione Incarnation. Il soffio che lo divide dal fratello richiama sul piano implicito l’animazione misteriosa e oscura della materia da parte di Dio, il soffio che lo divide dal fratello è proprio il soffio che dà la vita e di cui il fratello è ormai privato per sempre. E soprattutto quando le stelle salgono in cielo, quindi nella notte più buia, il poeta può sentire con la potenza della sua immaginazione il suo respiro nei suoi capelli e di nuovo i capelli uniscono come sinistro Leitmotiv la vita alla morte come intreccio indistricabile, mentre l’occhio del fratello lo guarda in un’immagine sinistra più che mai con la luce infinita degli occhi del nulla nel buio, questo nello splendido e terrificante ossimoro poetico – l’amore del poeta per il fratello non cancella l’orrore del nulla, ma anzi lo esalta.

La vita dunque appare ovunque a Pasolini in questa composizione quadripartita come qualcosa che proviene dal nulla e ritorna al nulla che – come nei filosofi presocratici e nella mitologia greca – attende di ricucire lo strappo dovuto all’uscita della vita da esso con il rientro dei viventi là da dove nessuno e niente potrà mai più uscire.

Nella tetralogia pasoliniana emerge comunque e anche in modo del tutto concreto come ciò che di buono stia nell’esistere sia rappresentato dagli affetti più semplici, nella loro veste di affetti familiari, della famiglia. A quei dolci affetti tra figlio, madre e fratello, Cristo dovette rinunciare per un motivo insito alla sua vicenda terrena, così che abbandonò il focolare, la madre, i fratelli. Nel poemetto non viene citato esplicitamente in nessuna forma il padre sul doppio binario della vita terrena come padre di Pasolini e celeste nella metafora. Implicito a ciò è il non amore per un padre che crea l’infelicità dei suoi figli e non se ne occupa più, lasciandoli soli e condannandoli al nulla, solitudine che diviene al contrario dolce sofferenza nella madre solo terrena e nei suoi figli che paiono essere solo suoi e di nessun altro degno del nome di genitore. Per altro il sangue innocente è immemore del peccato originale dovuto alla condanna divina la quale che non ha nessun valore per il poeta e la quale anzi in quanto tale solo accentua l’eventuale mancanza di amore in un eventuale padre divino. Anche Pasolini come Cristo ha scelto di prendere su di sé la croce terribile di aver dovuto dimenticare tale nucleo affettivo per la sua missione, nella fattispecie non religiosa, ma artistica e sociale, questo in una volontà che anche nel poeta non ha più nulla di umano, di dolcemente affettivo. E questa volontà non più umana di abbandonare una vita da viversi protetti entro la dolcezza degli affetti familiari rende triste e disperata la vita per sempre, dà ad essa il contrassegno della diversità vissuto da Pasolini sul piano personale più tragico.

Così nella tetralogia poetica di Pasolini a memoria della vita spezzata del fratello e a memoria devastante della parabola dell’esistere.

                                                                                                                                                             Rita Mascialino

PASOLINI, P.P.
1975 (ottobre-dicembre) A me fradi. In Sot la nape: 5-6.

Immagine: Claudio Pina, scrittore, giornalista, videomaker a livello mondiale e Rita Mascialino a La Valletta Brianza in occasione della presentazione della silloge poetica 'Pietre d'inciampo' (2018) di Paolo Menon.




venerdì 12 gennaio 2024

 RITA MASCIALINO, DEL ROGO SU CUI SI BRUCIA LA VECCHIA BEFANA

Articolo apparso sulla Rivista Culturale mensile cartacea  "OceanoNews", Direttore Dr. Massimo Massa, Gennaio 2024.

La derivazione del termine Befana come Epifania risale, come tutti sanno, al greco ἐπιϕαίνομαι, apparire, da ἐπιϕάνεια, epipháneia, da cui feste dell’apparizione – del divino – o manifestazione del divino di vario genere pagano e cristiano: riti di rigenerazione della natura, compresi i riti celtici e ulteriori comunque antichissimi, e manifestazione di Gesù alla nascita con visita e omaggio dei Re Magi, ossia Maghi, anch’essi stregoni, sembra il 6 gennaio. Qui tuttavia la riflessione riguarda il rito secondo il quale in alcune regioni italiane si accendano grandi falò, come ad esempio nel Veneto, ma non solo, per bruciare in essi il fantoccio rappresentante una vecchia, ossia la Befana, come simbolo per bruciare l’anno vecchio e far posto all’anno nuovo – i roghi in cui si bruciano fantocci di genere maschile per eliminare l’anno trascorso non interessano questa riflessione.



https://www.calabriamagnifica.it/costume-e-societa/la-befana


Tali roghi di vecchie per altro, retaggio di un antico passato fuso con tempi non troppo remoti, non ci sono solo all’Epifania, ad esempio anche a metà del periodo religioso della Quaresima si processa in Friuli, a Pordenone, una vecchia raffigurata in un fantoccio e accusata di essere responsabile di tutti i mali, infine per questo condannandola al rogo.

Relativamente alla Befana dunque, si tratta appunto di una vecchia collegata all’anno trascorso, la quale si deve supporre saggia se è vero che la saggezza accompagna simbolicamente la vecchiaia, una vecchia che cavalca per di più una scopa con cui viaggia liberamente nei cieli, in pieno possesso dei propri poteri, scopa come una protesi fallica che le permetterebbe di essere libera e di operare grandi cose, una donna speciale dunque capace di agire in uguaglianza ai maschi pur restando donna. Anche una vecchia strega, capace a quanto sembra di arti magiche rivolte al bene, all’elargizione di doni ai bambini.

Perché dunque presentare l’anno vecchio come donna e strega colpevole dei mali e quindi bruciarla al rogo? Perché presentare l’anno vecchio, grammaticalmente maschile per altro, come donna da bruciare? Certo già Eva è portatrice di morte e sciagure nel mondo stando alla maledizione scagliata sull’umanità a causa sua e del compagno nientemeno che da Dio (Sacra Bibbia 1962: Genesi: 3, 17) nell’antica leggenda della religione ebraico-cristiano-cattolica e così è anche per la Befana per via della condivisione del genere femminile, con le trasformazioni nel tempo dovute al fiabesco e le associazioni ai roghi di epoche trascorse. Di fatto un tempo era consueto pensare che i maschi portassero fortuna e le donne scalogna, ad esempio se il primo gennaio si vedeva al mattino un uomo passare per la strada, allora tutto l’anno avrebbe portato buone cose a chi aveva avuto tale privilegio, il contrario se si vedeva una donna. Tornando alla Befana, essa in sé è una donna fornita di poteri superiori, quasi per così dire maschili o forse proprio per questi suoi poteri poco graditi quando sospettati in una donna, i poteri dell’intelligenza, viene bruciata viva da qualche parte ancora oggi – metaforicamente, si intende –, per il suo ardire appunto di voler usurpare caratteristiche che in passato dovevano restare solo appannaggio maschile, quasi essa potesse fare concorrenza al potere dell’uomo. Ricordo che da piccola bambina vestivo quasi sempre calzoncini corti d’estate e allora il prete del paesino predicava accesamente in chiesa contro le bambine che osavano vestire pantaloni, magari future streghe, magari possibili future Befane da mandare simbolicamente al rogo, chissà mai.

Comunque invece di essere ringraziata per i suoi doni, questo auspicando il suo magico ritorno per sempre negli anni venturi, essa viene – userei il termine corretto se non infastidisce – assassinata con un rito che non può evitare di associarsi alla tristissima memoria della morte al rogo di donne concrete, accusate di stregoneria, organizzato dal Tribunale dell’Inquisizione durante tanti secoli non molto distanti. Io ho sempre amato la festa della Befana più di ogni altra nel periodo natalizio e di passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo e non ho mai assistito, pur potendolo fare ed essendo stata invitata più e più volte, né voglio assistere, al rogo della vecchia per metaforico che sia.

Possibile che oggi, in tempi che sono cupi ancora per tante donne nel mondo, si festeggi la fine dell’anno trascorso personificandolo al femminile in una vecchia da uccidere bruciandola al rogo e dimenticando i suoi dolcissimi doni concreti e metaforici di un’intera vita? Certo, la Befana è dotata di scopa nel significato di cui sopra, è una strega e una donna audace, capace di intelligenza, ma se questo bastava in passato a giustificare i roghi per le donne streghe che volevano essere libere come i maschi, oggi la morte della Befana al rogo di inizio d’anno si associa, inevitabilmente per somiglianze nel profondo, al festeggiamento metaforico del donnicidio come punizione per il suo ardire. Non sarebbe una festa più bella, nelle regioni in cui si brucia ancora la vecchia, ardere una pira senza genere maschile o femminile personificante l’anno passato, proprio dando l’incarico alla vecchia Befana di accendere l’innocuo rogo in una edizione più umana del rito, in una conciliazione festosa con le donne che vogliono godere del diritto alla libertà e all’intelligenza?

Riflettendo per altro, nella nuova attribuzione dei generi che impegna tanto assiduamente e ostinatamente i tempi attuali in alto loco, non ci sarebbe da meravigliarsi se, dato che anche la divinità è ancora di genere assolutamente maschile, qualcuno ritenesse e magari decidesse in qualche Commissione Europea di attribuire un genere non più maschile in assoluto alla divinità stessa, così da aggiornare la visione del mondo dell’umanità o di parte dell’umanità. Viviamo in tempi di audaci aggiornamenti, di cambiamenti e trasformazioni per così dire, nel piccolo, nel molto piccolo,  rivoluzionari, per cui anche il rito della Befana potrebbe essere rieditato diversamente, insisto: più umanamente così che anche il rito della Befana potrebbe essere aggiornato – io ho sempre avuto e ho grande rispetto dei vecchi, anche di quelli insopportabili, forse per questo mi dispiace che si festeggi il rogo di una vecchia, di una strega portatrice di buone cose concrete e ideali.  

Il rogo per la vecchia Befana è soltanto uno scherzo festoso? Certo, lo sappiamo tutti, di pessimo gusto visti gli inevitabili agganci alla memoria storica.

Segue un esempio (John Edwards Inquisition  2006: Mondadori: 27) di tale memoria storica associativa per alcuni tratti rilevanti e pertinenti in questa riflessione

 

“(…) Uno dei primi inquisitori, Guillaume Pelhisson, riferisce con orgoglio di casi che al lettore moderno appaiono di una terribile crudeltà. Nel 1234, per esempio, quando la notizia della santificazione del loro fondatore raggiunse Tolosa, i domenicani, tra cui il vescovo della città, Raimondo di Miramont, si radunarono nel convento per celebrare la messa. Prima che sospendessero le preghiere per pranzare, giunse loro la notizia che un’anziana donna, sospettata di essere una catara, era in punto di morte (presto lo sarebbe stata davvero, in un modo inaspettato e orribile). Il vescovo si recò a farle visita e, poiché i suoi parenti non riuscirono a metterla in guardia, la donna pensò che egli fosse un perfectus cataro e gli aprì il suo cuore. Come risultato, Raimondo la condannò sommariamente come eretica impenitente e la donna fu immediatamente portata fuori dalla sua casa, ancora nel letto, e arsa viva; dopo di che i domenicani tornarono al loro pranzo, per celebrare il nuovo santo patrono (…)”

 

Un’associazione e una riflessione inopportune queste in una lieta ed immemore festività tra il rogo metaforico di una vecchia Befana e il rogo reale di una vecchia malata considerata eretica? L’associazione disturba la festa così bella, non il pranzo per il patrono ovviamente, ma l’allegra cena con gli amici al caldo del caminetto? Non è elegante una simile comparazione in un’occasione di festa? Può darsi, ma le memorie storiche, per essere maestre di vita, vivono anche e soprattutto di associazioni tra i fatti.

 

                                                                                              Rita Mascialino

 


 

domenica 7 gennaio 2024

RITA MASCIALINO: 'ANSWER' di SARAH MCLACHLAN

 

La canzone Answer, Risposta, è composta dalla cantautrice pop Sarah McLachlan (Halifax 1968), performata al pianoforte e cantata dalla stessa con una voce che si potrebbe dire, metaforicamente, un dono di Dio, più concretamente: dono della genetica e della ipersensibilità della canadese Sarah. Si trova inserita nel suo album Afterglow (2003), qui tradotto con Ultimo bagliore come lo è quello del riverbero delle ultime luci del tramonto.  È stata inserita anche nell’interessantissimo film del regista irlandese Neil Jordan (Sligo 1950) The Brave One (2007) sia in una scena del film, sia nei titoli di coda – quando la protagonista, a casa ormai da sola, accende il Lettore, la musica e il canto irrompono magnifici introducendo il ricordo della dolcezza della felicità trascorsa e per sempre interrotta tragicamente, mentre alla fine i suoni sono quasi sommessi, essendo la protagonista sola con i propri crimini, tali seppure commessi con giustizia. Due parole sulla traduzione del titolo del film in italiano. In inglese il genere del personaggio protagonista della vicenda, interpretato da una insuperabile Jodie Foster (Los Angeles 1962), si riferisce a una persona di genere non esplicito dato l’articolo uguale per tutti i generi e il pronome personale che può valere sia per il maschile che per il femminile. Il buio nell’anima, nella traduzione libera, aggira lo scoglio del genere, ma modifica il significato del titolo originale e anche del film, come qui non è possibile spiegare, si andrebbe fuori tema.

https://spectrumlocalnews.com/tx/south-texas-el-paso/news/2023/12/12/sarah-mclachlan-announces-2024-tour


Venendo alla semantica di musica e testo poetico, il tono di fondo della canzone rievoca un genere tipicamente proprio della donna per la sua voce più alta e meno dura di quella maschile, più bassa: la nenia come ninnananna nel doppio aspetto funebre quando accompagna il morto nel regno del sonno eterno, anche di ninnananna che accompagna i bambini nel sonno da cui si sveglieranno ancora più che mai vivi. Da non confondersi con il canto funebre nella musica ecclesiastica, la nenia è di antichissima origine, è un canto al femminile noto dalla cultura dell’antica Roma in particolare. A proposito della donna per così dire ritenuta adatta ad avere il rapporto più diretto con la vita essendo generatrice di vita e, destinata a morire ogni vita, anche indirettamente di morte, è interessante ricordare i due aspetti della preistorica e più che sinistra Dea Madre: quello dell’uccello che annuncia e porta l’uovo, la fecondità, la vita, rimasto ancora oggi nel mondo della fiaba come cicogna che porta i bambini, e quello dell’avvoltoio che annuncia e porta la morte.

Testo poetico della canzone (http://songmeanings.com/view/) e Video YouTube relativo alla canzone (https://www.youtube.com/watch?v=f6pQcpFnXOI)

Answer

“I will be the answer at the end of the line
I will be there for you while you take the time
In the burning of uncertainty, I will be your solid ground
I will hold the balance if you can't look down

If it takes my whole life, I won't break, I won't bend
It'll all be worth it, worth it in the end
'Cause I can only tell you what I know
That I need you in my life
When the stars have all gone out
You'll still be burning so bright

Cast me gently into morning
For the night has been unkind
Take me to a place so holy
That I can wash this from my mind
The memory of choosing not to fight

If it takes my whole life, I won't break, I won't bend
It'll all be worth it, worth it in the end
'Cause I can only tell you what I know
That I need you in my life
And when the stars have all burned out
You'll still be burning so bright

Cast me gently into morning
For the night has been unkind”

 

Traduzione di Rita Mascialino:

Risposta

“Voglio essere la risposta alla fine del viaggio

Voglio essere là per te mentre prendi tempo

Nell’incendio dell’incertezza, voglio essere la tua solida terra

Voglio tenerti in equilibrio se non puoi guardare giù

 

Se ci vorrà tutta la vita, non voglio spezzarmi, non voglio piegarmi

Ne varrà la pena, fino alla fine

Perché posso solo dirti che so

Che ho bisogno di te nella mia vita

Quando le stelle si saranno tutte spente

Tu risplenderai ancora così radioso

 

 

Lanciami gentilmente dentro al mattino

Perché la notte è stata scortese

Portami in un posto tanto sacro

Che io possa lavare via questo dalla mia mente

La memoria di aver scelto di non combattere

 

Se ci vorrà tutta la vita, non voglio spezzarmi, non voglio piegarmi

Ne varrà la pena, fino alla fine

Perché posso solo dirti che so

Che ho bisogno di te nella mia vita

Quando le stelle si saranno tutte spente

Tu risplenderai ancora così radioso

 

Lanciami gentilmente dentro al mattino

Perché la notte è stata scortese”

 

Una premessa: la traduzione di Mascialino interpreta, diversamente dalla generalità delle traduzioni e tra l’altro, il sintagma I will (…) come è nella realtà della mente inglese, ossia un tempo presente, espresso con un modale che indica che l’azione non è ancora compiuta – tutti i futuri sono in questa lingua presenti indicativi di un tipo o l’altro, questo specificamente è composto dal presente indicativo del verbo modale volere, will, in voglio essere, quindi sarò, per così dire. Questa scelta è dovuta all’interpretazione generale del testo che parla della volontà enfatizzata della protagonista di essere forte – i dettagli fra poco. Tale interpretazione è indirettamente confermata dalla forma abbreviata I’ll che compare nel secondo verso della seconda e quarta strofa, dove il verbo shall e will non sono enfatizzzati, bensì scompaiono nell’unica forma verbale che non esprime la volontà della protagonista, ma si riferisce a un’opinione espressa non in prima persona, ma impersonalmente, alla terza persona del neutro. Compare quattro volte in due versi anche nella forma negativa abbreviata won’t riferita al fatto che la protagonista non si vuole spezzare né piegare – won’t, nella pronuncia, ripropone il verbo volere due volte, in will e want, entrambi appunto significanti volere, che in questi versi viene associato inevitabilmente al non volere presente nella forma won’t in un gioco di nuovo enfatizzante la volontà collegata al soggetto I, io, in un bel gioco linguistico – la forma sintetizza la negazione, ma il verbo will, enfatizzato in want, volere, maschera solo parzialmente se stesso, anzi lo ribadisce due volte in un termine unico.

Riprendendo la breve analisi semantica di Answer, si rinvengono dunque i tratti musicali della nenia, lenta e ripetitiva nei pochi cambi di accordi, cui la voce di Sarah McLachlan dà sensualissima tonalità fino alla sublimazione nel, di nuovo metaforico, celestiale. Già dall’inizio dei versi del testo poetico si parla di fine di una relazione erotico-affettiva che si sovrappone alla vita stessa – intesa come unione psicofisica di due esseri per la vita e per la morte –, dove la donna vuole essere presente quale funzione consolatrice, capace di dare forza nel momento più tragico, quello degli ultimi bagliori dell’amore e, sempre nella medesima ottica, della vita, dei quali il tramonto è simbolo principe. La protagonista, seguendo l’interpretazione di superficie, vuole dare speranza e forza alla persona amata perché affronti l’incertezza del momento grave, dei momenti gravi. La donna vuole dunque rafforzare la persona amata, vuole aiutarla ad affrontare le avversità, costasse anche il sacrificio di tutta la sua vita, fino alla fine.

Tale testo viene interpretato ovunque, come accennato, come rimpianto per l’amore perduto e per la volontà della donna di aiutare il compagno qualora avessero bisogno di lei, nel momento esistenziale più drammatico, la fine della relazione che si confonde poeticamente con la fine della vita. Sarah McLachlan stessa afferma di aver dedicato la canzone, testo compreso, al marito come our last song in the night of our wedding, la nostra ultima canzone nella notte del nostro matrimonio, ossia verso la fine del matrimonio stesso, percepita come fine della vita in due, estesamente per molti ulteriori accenni anche alla fine della vita stessa – ribadendo: spesso di fatto nel testo si sovrappongono i due ambiti. La donna vuole dunque sostenere la persona amata in tutte le circostanze in cui ci fosse bisogno del suo aiuto, fino alla fine, ne varrebbe la pena sempre, ad oltranza per così dire, così che affronti la fine e della relazione e della vita con equilibrio, aiutata ad avere coraggio di guardare il fondo da lei, dalla protagonista. La McLachlan esprime tuttavia il ricordo della scelta pregressa di non combattere, di rinunciare alla lotta. A parte il fatto che per aiutare qualcuno, occorre essere disposti in qualche modo anche a combattere per la persona da aiutare, oltre a ciò qui sta una delle contraddizioni la quale darebbe al testo la qualità negativa dell’incoerenza. In altri termini: può una donna che vuole essere il solido terreno su cui la persona amata possa stare senza perdere l’equilibrio, la stazione  eretta, può una tale donna che vuole essere forte, fortissima al punto di dare forza all’altro di fronte alla sofferenza e anche alla morte, accompagnandoli così nella vita e nella non vita, può questa donna poi dichiararsi debole al punto di chiedere alla persona, che dice di voler aiutare in quanto incerta e debole, di avere la forza di lanciarla, cast me, lanciami, non di portarla, ma addirittura di lanciarla con un gesto che implica forza, seppure gentilmente, dentro al mattino perché possa risorgere con esso, visto che la notte è stata dura e crudele con lei? Certamente no, pena la sconfessione di quanto ha promesso di voler fare. Non solo, ma in aggiunta: la protagonista chiede alla persona amata, che voleva aiutare a uscire dalla sua debolezza perché avesse forza per affrontare vita e morte, nonché separazione negli affetti, chiede dunque alla persona in questione, che sappiamo, dal testo esplicito, più debole di lei, che questa abbia improvvisamente la forza, enorme, di lavare via, ossia di eliminare dalla mente della donna la memoria di aver scelto di non combattere, di non avere forza dunque. Proprio in questa richiesta, secondo quanto sta nel testo e si evince da esso, c’è una ulteriore contraddizione, grossa, tale che provoca il crollo totale della poesia nell’incoerenza e toglie ogni valore alla promessa della donna di volere aiutare e dare forza. Ciò potrebbe essere, ma all’analisi più profonda del testo ciò non risulta, come vedremo subito. Ricapitolando: avendo la McLachlan dichiarato la sua volontà di farsi aiutare a cancellare dalla mente il ricordo di non aver voluto combattere, azione che non riesce a fare da sé, ma per la cui riuscita chiede aiuto proprio alla persona cui voleva dare la propria forza, avendo dunque la McLachlan dichiarato ciò, il lettore può pensare che sia tutto corretto: chi meglio dell’autrice può sapere come stanno le cose nell’interpretazione delle sue opere? Nessuno. Invece l’autore è in realtà l’ultima persona da ascoltare nell’interpretazione delle sue opere, nel senso che si trova di fronte ad esse come qualsiasi lettore inesperto e anche peggio talora, se ha paura della propria più profonda verità espressa nelle sue opere. Occorre analizzare i testi per capirlo e gli artisti non sono in genere le persone più qualificate per farlo, non mi soffermo sui motivi alla base di ciò. E pochi analizzano. Che l’autore non vada del tutto ascoltato nelle interpretazioni, a meno che non sia un analista rifinito, è noto già dal 1946 – anche da un trentennio prima  a voler essere più precisi – con la Intentional Fallacy di Wimsatt e Beardsley, con cui l’intenzione o le intenzioni semantiche degli autori, le loro opinioni, non avevano l’ultima parola in fatto di interpretazione – con il New Criticism ha perso la preminenza anche l’assegnazione di significato alle opere attraverso l’analisi del contesto storico, biografico etc. Ora potrebbe essere che l’opinione della McLachlan sia corretta, con relativa caduta nell’incoerenza che la sua eventuale opinione non può comunque evitare. Tuttavia, se si valuta il testo in sé, senza lasciarsi suggestionare da quanto un autore o l’altro dice, anche un critico o l’altro dice, si possono avere delle sorprese semantiche non da poco. Ed è quello che andiamo a fare nella fattispecie.

Dimentichiamo che il testo si rivolga al marito della McLachlan, per altro nel testo, a parte la decisione di dedicargli la canzone a posteriori, nulla si riferisce esplicitamente al marito o a un compagno, c’è solo un tu che si può riferire a una persona, a chiunque, certo a una persona amata, questo resta chiaro in qualsiasi livello esegetico – un tu, you singolare, non si può, tra l’altro, chiedere a tutto il mondo di lanciarci nel mattino, ma ad una persona sola, unica, appunto amata, amatissima.  È la McLachlan che dice, dopo aver composto la canzone, di dedicare definitivamente, dopo riflessioni quindi, la canzone al marito. Dimentichiamo tutto ciò, non le contraddizioni però, e proviamo a cambiare totalmente l’esegesi del testo – che non esclude la dedicazione, che può rimanere, ovviamente con ben altro significato. Se si interpreta la canzone come dedicata in primis alla McLachlan, a se stessa, scompaiono tutte le contraddizioni e il testo domina sovrano in bellezza e profondità, come canto della donna a se stessa per avere da se stessa la forza di vivere e di morire, di amare malgrado la fine del suo amore per il compagno. È a se stessa che Sarah McLachlan rivolge la promessa di tenere duro, di non spezzarsi e di non piegarsi, questo fino alla fine, della vita, ma anche del suo amore, ad oltranza quindi. Ed è  la protagonista che chiede a se stessa di avere la forza di lavare via, ossia di eliminare la memoria del momento in cui, afflitta e abbattuta, non avrebbe più voluto combattere. Così in questa interpretazione che toglie ogni contraddizione e fa emergere in Sarah McLachlan la donna straordinaria che è, la donna che vuole farcela chiedendo a se stessa l’aiuto per vivere e morire, per amare, questo vale la pena di raggiungere, essa dice nel suo intensissimo testo poetico, perché essa ormai sa che nessun altro glielo può dare e sa anche che essa si ama e si deve amare, come nessun altro potrebbe mai.

Resta da mettere in collegamento il testo, qui così interpretato ed emendato da ogni contraddizione – emersa nel testo linguistico come parola sfuggita al profondo inconscio – con la musica, con la nenia, che accompagna nella quiete, eterna o momentanea, non apparentemente adatta alla volontà di resistenza tenace della protagonista. Viene al proposito in soccorso l’avverbio gently, gentilmente,  il primo verso della terza strofa e dell’ultimo distico: il lancio gentile nel mattino dopo una notte non gentile, a inaugurare l’inizio di una nuova vita, la sua, in modo appunto gentile tuttavia, non violento, non rancoroso verso chi le ha fatto del male nella sua vita percepita come una notte crudele, unkind, all’insegna, implicitamente, di uomini,  di un uomo unkind, mentre essa e il suo nuovo mattino sono kind, gentili, secondo un femminile che non dimentica mai la propria natura non violenta, non rancorosa. La risposta, di Sarah McLachlan ai mali della vita è il proprio rafforzamento attuato in solitudine, facendosi forza da sé, sempre nella gentilezza d’animo che contraddistingue la natura della donna, la sua natura. Da ciò, in parte, la tonalità della nenia, non un ritmo che istighi alla violenza, ma una dolcissima aria che si sposi perfettamente con il lancio gentile in un nuovo inizio della vita, in un risveglio non impostato alla violenza, ma comunque alla bontà, anche se capace di combattere per realizzare questo risveglio dopo una vita paragonata ad una notte crudele, con le armi messe a punto dal proprio rafforzamento, dalla propria disponibilità ad aiutarsi anche in solitudine per non soccombere. Come abbiamo visto, alla richiesta di aiuto che essa pone a se stessa, Sarah lo trova in se stessa, essa sarà la riposta al femminile, come recita il primo verso della poesia stupenda, una donna che non si aspetta nulla dagli altri, dagli uomini, dall’uomo che ha amato e che non l’ha aiutata, facendola al contrario soffrire. Ma qui soprattutto vengono in soccorso della scelta della nenia anche e soprattutto i due molto suggestivi versi della seconda e quarta strofa When the stars have all gone out/You’ll still be burning so bright, Quando le stelle si saranno tutte spente/Tu arderai ancora tanto luminosamente. Da un lato la donna continuerà a brillare di luce propria, della propria promessa e speranza, ma non solo, messo appunto tutto ciò in contatto con la scelta della nenia, i versi si possono riferire ad una vita nella luce del duplice nuovo inizio che avverrà al canto della nenia, del canto femminile che accompagna nel duplice sonno, passeggero ed eterno. A questo punto tutti i giochi sono chiariti: la nenia accompagna la donna anche nel risveglio dell’ultimo mattino nella gloria della luce eterna.

Straordinaria, sconvolgente di dolcezza femminile è la poetessa e compositrice Sarah McLachlan nella canzone Answer

                                                                                                                                 Rita Mascialino

____________________________________________________________________

 

  

  Rita Mascialino ,  ‘Insieme falceremo il vento’: Poesie di Angioletta Masiero. Recensione. La silloge poetica Insieme falceremo il ven...