domenica 28 marzo 2021

 Rita Mascialino, "Dante e l’amore di Paolo e Francesca (Divina Commedia, Inferno, Canto V): semantica letteraria"

(per il Settecentenario della morte di Dante)

Nel Canto V, Secondo Cerchio dell’Inferno della Divina Commedia dove stanno gli Incontinenti, primi fra questi i Lussuriosi, si incontrano, raffigurati tra storia e leggenda, i personaggi di Francesca da Rimini e Paolo Malatesta. Non ci interessano qui possibili corrispondenze con eventi reali, ci interessa qui solo la semantica del testo dantesco, ossia il significato del testo dantesco per quello che offre. 


(www.pitturaomnia.com - Rivista d'Arte on-line)
Opera di Frank Dicksee (Londra 1853-Londra 1928) Paolo and Francesca 

A questo Cerchio dunque i due sfortunati amanti, per altro adulterini, sono stati destinati da Minosse, allegoria del Giudice infernale che ne sta all’ingresso orribilmente e ringhia (4). Come i due giovani in vita sono stati preda del vento più ardente e incontenibile della passione, così ora sono incessantemente sbattuti  in ogni direzione dal più gelido e violento vento di una tempesta spietata, questo per la legge del contrappasso che vuole in tal modo condannati gli spiriti mali (42). 

Dante, pur inserendo Paolo e Francesca nell’Inferno, rende il suo insuperato e insuperabile omaggio poetico all’attrazione amorosa nel suo significato più fine: nel testo dantesco Francesca parla di quell’Amor (100, 103, 106) che si accende al cor gentile (100) e ch’a nullo amato amar perdona (103) quasi come sia impossibile non cedere all’attrazione amorosa qualora si abbia un cuore gentile e si ami in tal guisa. Qui non si è di fronte alla donna angelicata che pare tanto gentile e tanto onesta quando saluta il prossimo come nel celebre Sonetto dantesco (Mascialino 2020: «Lunigiana Dantesca», N. 163), bensì si è di fronte a una donna passionale che non resiste all’attrazione amorosa quando non sia solo materiale, ma appunto sia collegata al cor gentile. Tale donna, sebbene nell’Inferno quale anima dannata per Lussuria, peccato già presente nella Lonza allegoria della Lussuria nella selva oscura (Dante, Divina Commedia: Canto I, 2), sta con gli Incontinenti, coloro che non sono stati capaci di controllare l'istinto sessuale come pure Paolo, giustifica dunque il suo cedimento e quello di Paolo in nome del cuore gentile e dell’amore che non perdona chi lo senta ardere in un tale cuore, ciò in cui essa sembra sentirsi, non troppo implicitamente, non meno colpevole, ma quasi vittima dell'amore che si accenda nei cuori gentili. L’amore, al quale i due giovani non furono in grado di sottrarsi quando lessero il passo in cui Lancillotto baciava la regina Ginevra moglie di re Artù,  è dunque presentato dalla donna – è esclusivamente essa che parla con Dante, Paolo solo tace e piange –,  quasi sia essa la persona legittimata a parlare di amore gentile come atto che nobilita la passione dei sensi, il piacer sì forte (104), attraverso la presenza di un sentimento nobile simboleggiato, ribadendo, nel cuore gentile. Rilevante nel testo è il fatto  che il termine Amor, nella sua accezione di attrazione psicofisica tra gli umani, sta con la maiuscola all’inizio di ben tre terzine (32, 33, 34), ossia nel testo dantesco detiene una insistita preminenza con cui Dante, nel contesto senza equivoci di sorta, omaggia tale sentimento tanto intenso da farlo cadere come corpo morto cade (142) – molto esplicita nella vicenda dei due amanti è l’unione di amore e morte sul piano simbolico come massimo esito di una tale passione. Certo, la citata maiuscola è dovuta alla posizione del termine come prima parola dei versi iniziali delle tre terzine, ma si deve tenere presente che, se Dante non avesse voluto questa maiuscola, l’avrebbe molto agevolmente evitata distribuendo il termine durante i versi in diversa collocazione, come accade altrove nel Canto, e in ogni caso non l’avrebbe riprodotta per ben tre volte in tre consecutive terzine – Dante era un sommo poeta, forse il sommo dei sommi, non uno strimpellatore di versi. In questo venir meno finale di Dante, commosso fino a perdere i sensi, non si può non vedere, come per altro emerge sulla base del testo dantesco in questione, il dolore dell’uomo Dante relativamente non solo al dramma relativo a una passione amorosa tanto intensa e gentile, ma anche relativamente al dispiacere per la condanna che ha colpito, pur giustamente, i due cuori gentili, non due persone materiali o del tutto materiali dunque – Dante in aggiunta parla di dolci pensieri (113) a proposito dei due amanti, non di istinto lussurioso. Nel piano allegorico e anagogico si afferma che Dante abbia voluto rappresentare come la lussuria si dissimuli sotto mentite spoglie. Forse, sempre secondo i piani esegetici citati, Dante ha voluto consapevolmente rappresentare l’inganno della lussuria che appunto si atteggia a buoni sentimenti, ma di questo, ribadendo,  non vi è traccia alcuna nel testo dantesco. Citiamo al proposito le parole stesse di Dante sul significato del testo che deve antecedere gli ulteriori significati, molto similmente alla semantica del testo che deve essere la prima ad affrontarsi quale base di tutte le altre indagini:

«6. Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l'etternal gloria sì, come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l'uscita del popolo d'Israel d'Egitto, Giudea è fatta santa e libera. 7. Chè avvegna essere vera secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s'intende, cioè che ne l'uscita de l'anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate. 8. E in dimostrar questo, sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico.»

(Dante AlighieriConvivio, II.i.6-8[4])

 

Proseguendo nell'analisi della semantica del testo, Francesca è posta tra i Lussuriosi, ma il termine lussuriosa nel testo dantesco è utilizzato attraverso Virgilio per connotare Cleopatra che non pare avesse un cuore gentile nel senso dantesco. E, per altro, c’è nel testo del Canto un ulteriore omaggio eccezionale che Dante ha espresso pur mimetizzandolo nella assolutamente indiscutibile condanna divina alla pena per tutta l’eternità. I due amanti, anche se nell’Inferno ormai per sempre – la spaventosa porta dell’Inferno dura in eterno (Canto III, 8) –, sono assieme per l’eternità, nella sofferenza atroce dovuta al peccato e alla implacabile bufera, ma comunque ancora uniti nella passione reciproca, come Dante fa dire a Francesca, ossia in un’attrazione amorosa non spenta dalla bufera infernale – e a monte divina – e che, come la pena, è destinata pertanto a durare  anch’essa in eterno. Persino Virgilio dice di essi che verranno da Dante per quello amor che i mena (78, ossia riconosce straordinariamente che è l’amore, non la lussuria – almeno così nel testo –  che li conduce come forza al di là della bufera infernale o in seno ad essa pur relativa alla punizione. Virgilio dice inoltre che, non appena il vento le porterà verso di loro, allora potranno parlare. È da rilevare che Dante per parlare alle anime deve aspettare che il vento, nel suo sbatterle da ogni parte, le avvicini  per caso nella sua furia che cessa solo quando parlano – i due spiriti sono, secondo quanto sta nel testo, anime affannate (80). Non solo, ma i due spiriti, mentre si avvicinano chiamati da Dante, sono paragonati, in una delle più stupende comparazioni dantesche, a colombe, le quali sono in genere bianche, stanno insieme fedelmente tutta la vita formando una medesima coppia, sul piano della metafora: il bianco della colomba è il colore per antonomasia dell’innocenza, della purezza, anche dell’amore nella sua manifestazione più elevata, spirituale – ci atteniamo al testo, dove le altre anime dannate, pure lussuriose come Paolo e Francesca, sono tuttavia paragonate a stornei o gru (40, 46) che si assembrano in fitti stormi e sono per altro rispettivamente nocivi alle culture e anche lamentosi nel loro canto. Il fatto è che anche in questa comparazione i due amanti sono paragonati a simboli positivi, spirituali, addirittura celesti nella simbologia cristiana - sono essi inoltre che paiono essere leggeri nella bufera, un titolo di finezza pur nell'Inferno, di meno pesantezza. L’amore quindi che, non implicitamente ma piuttosto esplicitamente nel testo, continua a vivere eternamente anche nell’al di là, addirittura nell’Inferno, l’amore come sentimento e legame indissolubile nei cuori gentili, che nessuna condanna di nessun contrappasso, pur giusta, può indebolire e tanto meno cancellare. Che la sua eternità sia collegata alla orrenda pena pure eterna nulla cambia nel fatto che i due amanti, pur piangendo e soffrendo indicibilmente, siano ancora e sempre assieme e che il loro amore, come narra la donna, viva ancora e sempre malgrado la condanna divina applicata dal Giudice infernale. Una posizione straordinaria, quella di Dante, secondo la quale – si potrebbe ipotizzare in base al testo – neppure la Giustizia divina, all’apparenza e per quanto sta nel testo, dividerebbe gli amanti a fronte del loro cuore gentile, ossia distruggerebbe il loro amore più forte di qualsiasi altro sentimento. In altri termini: sembrerebbe una posizione secondo la quale né la Giustizia divina, pur condannando nel modo più giusto e più grave la colpa relativa al peccato di lussuria, né il Giudice Infernale Minosse abbiano inteso punire gli amanti dal cor gentile, che ancora si amano nel loro sentimento assoluto, applicando la punizione più grave di tutte: la separazione eterna delle anime, degli spiriti che tanto profondamente si erano amati e continuano ad amarsi. 

Così Dante, per quanto sta nel testo dedicato a Paolo e Francesca secondo la trasfigurazione poetica, avrebbe interpretato, audacemente secondo questi cenni di analisi semantica del testo e tralasciando ulteriori riflessioni, al di là di ogni sovrastruttura razionale, il sogno umano più grande, quello riferito all’amore quale sentimento di unione indissolubile di corpi e anime, quale sentimento più potente al sopra di tutti gli altri sentimenti, nobile se espresso da cuori gentili, un sentimento assoluto, quindi finalizzato di per sé a perdurare nell’eternità, sia come memoria della passione sul piano fisico, sia, e in primo luogo, come memoria della passione spirituale. 

          

                                                                                          Rita Mascialino





(www.pitturaomnia.com - Rivista d'Arte on-line) 
Opera di Frank Dicksee (Londra 1853-1928) Paolo and Francesca

martedì 23 marzo 2021

 IL METODO MASCIALINO ALLA BASE DEL MANIFESTO DELLA CRITICA CINEMATOGRAFICA (CLSD CENTRO LUNIGIANESE DI STUDI DANTESCHI)




METODO MASCIALINO relativo alla Critica Cinematografica, Letteraria e Artistica in  generale, espresso in 14 Articoli che ne espongono i motivi fondamentali in sintonia con i principi dell'Umanesimo Italiano relativamente al significato oggettivo delle opere letterarie e filosofiche - non laTeoria espressa in altri studi.

Dall'Introduzione del Presidente del CLSD Mirco Manuguerra al 'Manifesto' di Rita Mascialino:

"Il metodo di analisi elaborato da Rita Mascialino (si veda il n. 167 di LD: «Per una teoria esegetica non arbitraria dell’arte: il ‘Metodo spaziale’») si propone quale strumento aureo per evitare critiche strumentali o pericolose distorsioni rispetto all’impianto strutturale di un’opera d’arte. Il CLSD lo ha oggi sposato con decisione ed ha proposto al nostro critico di redigere un Manifesto per gli scopi di questa stessa rubrica: il Manifesto della Critica Cinematografica è tuttavia applicabile ad ogni tipo di arte (...) Il CLSD, in stretta collaborazione con la Curatrice, sta proponendo un sorta di Canone cinematografico della cultura occidentale (...) Il metodo di analisi di Mascialino, infatti, non impedisce al lettore di farsi una propria personale opinione delle opere analizzate: solo impone che le risultanze del critico tengano strettamente conto delle determinazioni oggettive fatte emergere dal Metodo. Ciò significa che al di fuori del range stabilito dall’Analisi, l’opinione sull’opera d’arte deve essere considerata metodologicamente del tutto scorretta, poiché sviluppata sulla pura fantasia del critico e non sugli elementi certi costruiti dall’Autore. Il Metodo Mascialino si offre, quindi, come strumento aureo per evitare (o smascherare, qualora non evidenti) ogni possibile strumentalizzazione delle opere d’arte o le pericolose distorsioni che possono essere portate dall’esegesi rispetto all’impianto strutturale dell’opera d’arte."







domenica 21 marzo 2021

Rita Mascialino, "Angiolo D'Andrea: 'Madonna con bambino (Il salice)' " 




Immagine di Angiolo D'Andrea 


Rita Mascialino, Angiolo D'Andrea: Madonna con bambino (Il salice) 

(Collezione Famiglia Bracco. Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea A. Pizzinato. Pordenone: Dipinto ad olio 100x70: fotografia fornita dalla Fondazione Bracco di Milano con autorizzazione alla pubblicazione)

Si deve alla Famiglia Bracco e alla Fondazione Bracco di Milano la realizzazione della prima Mostra personale del grande pittore friulano Angiolo D’Andrea (Rauscedo 1880-Rauscedo 1942) presso Palazzo Mirando a Milano 2012-2013 e della seconda Mostra personale dell’artista, più ricca in opere, presso la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea ‘Armando Pizzinato’ a Pordenone, aperta al pubblico dal 10 aprile al 21 settembre 2014.

Si tratta di un artista  che, grazie al pieno possesso delle diverse tecniche pittoriche e del disegno, è in grado di esprimere a livello estetico le più varie e sottili sfaccettature e sfumature del ricco mondo interiore conscio ed inconscio di cui consta la sua personalità. Un mondo psichico, quello di D’Andrea, che all’analisi si rivela denso di significati simbolici scevri dal livello di mere allegorie. Onde contribuire a collocare la sua arte nel posto che le compete culturalmente viene data una prima esplorazione sulla base oggettiva della spazialità dinamica (Mascialino 1997 e segg.) intrinseca all’opera, al mondo dei simboli portati ad espressione nel dipinto. È entro le citate coordinate concettuali che sono esposti alcuni pensieri analitici – impossibile nel breve spazio della recensione di un unico dipinto un discorso anche solo minimamente compiuto – relativi al mondo artistico del Maestro per tecniche e semantica del profondo oltre che di superficie, nella fattispecie relativi all’opera Madonna con bambino (Il salice) progettata verosimilmente entro il periodo creativo mistico-religioso attinente grosso modo agli anni  1905-1925 circa.

Angiolo D’Andrea ha realizzato il soggetto relativo alla Madonna con bambino in più dipinti simili fra di loro e tutti piuttosto distanti dalla tradizionale rappresentazione aulica che vede la Madonna quasi sempre avvolta nel manto azzurro, talora nero, ma comunque in linea di massima sempre vestita di abiti idonei all’identificazione dello status consono alla Madre di Dio. In D’Andrea la Madonna con bambino è propriamente la raffigurazione di una molto speciale madre con il figlio bambino accolto e protetto nel suo grembo, raffigurazione che si intitola sì alla Madre di Dio, ma  soprattutto per esaltare la qualità suprema della maternità, sentita nella visione del mondo dell’Artista come qualcosa di divino, comunque di superiore al possibile umano. Per fare un parallelo di conferma (op. 71, 122): quando la Madonna di D’Andrea ha il manto azzurro, si tratta di una tonalità cromatica fredda, spenta, che quasi non si riconosce come appartenente alla gamma degli azzurri ed il manto appare logoro dagli usi quotidiani più modesti, lontano da ogni importanza e regalità.  

Entro l’orizzonte in cui si situa l’interpretazione della maternità in D’Andrea la Madonna con bambino (Il salice) è l’unico titolo che si collega ad una apparizione per così dire ufficiale della Madonna nella storia della devozione degli umani. D’acchito si potrebbe pensare che si tratti di una rappresentazione mariana inneggiante ai miracoli operati nello specifico della stessa. In realtà non si tratta di questo o non solo di questo. D’Andrea ha scelto tale Madonna non tanto per particolare devozione alla Madonna del Salice e per i suoi miracoli, devozione che ci può anche essere stata, ma che non ricade nel dipinto come impatto immediato, bensì per altri motivi ben più complessi che si radicano nella sua concezione della maternità, della vita stessa. Di fatto l’Artista ha rielaborato l’apparizione in questione adoperando liberamente quanto la tradizione narra della Madonna del Salice o più esattamente narrano le tradizioni – c’è più di una leggenda sulle apparizioni di tale Madonna – e proprio questa libera elaborazione dei dati storico-religiosi relativi all’apparizione mariana collegata al salice ha consentito all’Artista l’ingresso dalla porta principale nel suo proprio mondo, quel mondo che egli ha espresso ovunque in vario modo secondo i vari soggetti ed appunto in particolare in questa tela. Per accennare alla libera rielaborazione di D’Andrea delle leggende attorno a tale Madonna, citiamo soltanto che nella storia della devozione: o è Cristo che è caduto ai piedi di un salice sotto il peso della croce e la Madonna è stata allontanata dai soldati romani mentre tentava di aiutarlo a rialzarsi e Cristo si è alzato aggrappandosi al salice che da allora avrebbe avuto i rami piangenti; o la Madonna è apparsa in un luogo dove i fedeli hanno poi piantato un salice e dopo è sgorgata una fonte miracolosa ai piedi dell’albero; o prima c’era la fonte e poi il salice; o altro di affine, ciò che appare solo marginalmente e comunque diversamente nell’opera dell’Artista.

Vediamo ora i dettagli fondanti la spazialità oggettiva a giustificazione dell’interpretazione dei simboli e dei significati qui attuata iniziando dapprima dalla tecnica che sostiene questa composizione. Angiolo D’Andrea si serve per esprimere la sua elaborazione personale della Madonna del Salice di una tecnica affine al puntinismo, il cosiddetto divisionismo che divide l’immagine ed il colore non in punti saturi e non sovrapposti come nel puntinismo, ma in linee più o meno sottili, più o meno lunghe o brevi e all’occorrenza sovrapposte. Il puntinismo – vedi Georges Seurat come  esempio principe – voleva mostrare all’ingrandimento la scomposizione dei colori in punti non sovrapposti e non mescolati, fusi successivamente nel processo della visione del colore percepito nella sua globalità. Anche nel divisionismo l’osservatore avrebbe dovuto far fare ai suoi occhi e al suo cervello la fusione cromatica sebbene non di punti, ma di linee di colori, talora anche sovrapposti e mescolati. Sia per i punti che per le linee tale fusione non risulta tuttavia possibile a livello dell’osservazione di un quadro in quanto si tratta di punti e di linee ingranditi  così che si percepiscono singolarmente come tali. Se dovessimo valutare le linee del divisionista Giovanni Segatini alias Segantini, rappresentante italiano di spicco della corrente, dovremmo dire che le linee si percepiscono appunto esattamente come tali senza che sia possibile fonderle in colori e tonalità unitari, per altro con un possibile senso di fastidio per la staticità che contraddistingue in generale la pennellata divisionista di questo pittore. D’Andrea ha scelto tale tecnica per molti dei suoi quadri dandole spesso una carica dinamica notevole, in special modo proprio nella Madonna con bambino (Il salice). L’ha preferita sia per il fatto che era la principale tecnica innovativa dell’epoca in collegamento con le scoperte scientifiche sulla visione, sia, e soprattutto, perché specificamente adatta all’espressione di particolari significati simbolici profondi e complessi come andiamo a vedere nel cenno esplicativo che segue relativo al dipinto in analisi.

La riduzione dei rami del salice a linee di stile divisionista verticali dalla dinamica dall’alto verso il basso senza il dettaglio delle foglie del salice a vantaggio del verso discendente accentua ed esalta il movimento di caduta dei rami come fossero pioggia battente e, trattandosi di un salice piangente, appunto di pioggia di lacrime, pioggia di dolore. Il salice quindi con la sua spazialità a grotta cava all’interno della sua chioma fatta di pianto esalta l’azione del piangere a fiumi. La chioma dell’albero appare in aggiunta nel suo insieme come una testa stilizzata in postura chinata mestamente o in pianto così che il salice piangente di D’Andrea rappresenta a più di un livello simbolico una proiezione del pianto umano e del pianto stesso della Madonna i quali vengono così a delineare e a connotare da più punti di osservazione lo spazio in cui essa appare. In altri termini: con la Madonna del Salice l’Artista ha dato, tra l’altro come vedremo subito, intensa espressione al dolore della figura materna e al dolore dell’umanità attorno ad essa  estroiettato nella struttura del salice piangente e nelle sue lacrime, spazialità enfatizzata dalla tecnica divisionista interpretata dal D’Andrea, diversamente che in Segantini come accennato più sopra, nel modo più dinamico e drammatico, tecnica che viene a sottolineare il movimento discendente dei rami o del pianto a cascata su di una struttura a volta e, per così dire, a volto.

Proseguendo con la tecnica, le cromie di cui consta questo dipinto sono principalmente l’azzurro dello sfondo rappresentato dal cielo che ripropone il colore del classico manto della Vergine, lo sgargiante verde smeraldino delle fronde del salice ed i bruni spenti del tronco e del suolo, della madre terra, nonché il bianco sfumato e talora trasparente relativo all’apparizione della Madonna. La Madonna dunque appare all’interno di un verdissimo salice che piange lunghe lacrime che piovono copiose e pesanti fino a terra, lacrime che segnano l’orizzonte di dolore in cui si manifesta tale Vergine e da cui essa non pare poter uscire altro che nelle speranze che prendono vita proprio dalla presenza del verde acceso, da sempre collegato al rinascere della natura e, per estensione, alla rinascita delle anime degli umani a nuova vita immortale dopo la morte fisica. Il verde del suolo allude per altro, per la spazialità che lo connota, ad una possibile presenza di acque formate dalle lacrime stesse della Madonna e del salice, secondo quanto il titolo del dipinto evoca con il suo indiretto richiamo ad acque miracolose formate prodigiosamente dalle lacrime della Madonna collegata al salice piangente, all’antro da esso formato.

Procedendo nella comprensione del significato del dipinto, tale figura mariana non mostra tratti identitari nel volto tranne che, forse e volendo andare molto per il sottile, un segno più o meno invisibile per il possibile taglio della bocca per altro molto amaro vista la dinamica dura e discendente degli angoli delle labbra in armonia con la spazialità verso il basso dei rami, tratto che, eventualmente, viene a rafforzare l’atmosfera generale del dipinto che riguarda una Madonna non lieta, bensì che comunica sofferenza. Detto altrimenti: la sofferenza intrinseca a questa rappresentazione si inferisce  implicitamente dalla spazialità dinamica della composizione del disegno, ossia dalla grotta strutturata dal salice piangente che chiude la Madonna entro se stesso ed entro il proprio pianto proiezione di quello della Madonna e del mondo. Il fatto che questa Madonna non abbia identità facciale potrebbe risalire, in un livello simbolico di superficie, alla presenza dell’epifania o manifestazione o apparizione che proviene dall’alto, ossia divina  o vicina agli dei, talora avente luogo nella luce più accecante che trasfigura ed anche cancella i dettagli dell’apparizione nell’abbagliamento. Tuttavia occorre constatare come tale luce relativa alla citata epifania mariana in D’Andrea non provveda propriamente la figura di nessuna sfumatura importante di contorni o irraggiamenti nella vista di chi guardi il dipinto, ciò che  riduce di molto la citata motivazione epifanica  non associandola ad una luce sfolgorante e mostra al contrario come il concetto di epifania, pure potendo questo essere stato presente nell’immaginazione dell’Artista,  non sia la connotazione semantico-emozionale principale dell’immagine. In un piano di spazialità relative a significati simbolici più profondi la Vergine appare nel dipinto non tanto o non solo fatta di luce, bensì appare in un manto bianco che ne copre tutte le fattezze, arti e volto compresi. La particolare interpretazione artistica di D’Andrea relativa all’apparizione di questa Madonna rende l’immagine parallela a quella di un fantasma, il quale si presenti secondo la tradizione appunto in un lenzuolo di funebre memoria dal colore da sempre collegato alla morte, il bianco come pallore del volto e delle ossa, ossia tale figura si associa dal punto di vista simbolico alla presenza di uno spirito giunto dall’al di là. Certo, la Madonna è nelle sue apparizioni, considerando possibile l’esistenza delle anime dei defunti, sempre e comunque uno spirito che giunge e si manifesta dall’al di là, ma in generale le raffigurazioni della Madonna presentano questa come fosse una persona viva e solo dotata di eventuale aureola o di alone divino, ma mai come un fantasma, mentre in questa immagine di Angiolo D’Andrea la spazialità del fantasma prevale assolutamente sulla tipologia delle apparizioni mariane. In base all’analisi della spazialità e delle cromie di cui si compone l’immagine, ciò che l’Artista ha dipinto non risulta essere la classica e tradizionale Madonna – mancano tra l’altro i più bei colori della vita  che sempre contrassegnano le raffigurazioni di Maria. In altri termini: tale Madonna, prima di essere una epifania del trascendente o del divino o un’apparizione devozionale, è a livello di spazialità e simbolismo meno di superficie il simulacro di qualcuno che viene dall’al di là, come lo spirito di un defunto, nella fattispecie come l’immagine di una madre che compaia dal regno dei morti in qualità di fantasma e che sia stata sovrapposta per il suo valore ad una apparizione della Madonna nella natura, nella fattispecie in una grotta formata dai rami di un salice piangente con tutta la simbologia a ciò intrinseca. Dunque una Madonna con bambino che appare nel dolore e nel pianto per l’umanità, ma prima ancora una madre defunta e triste per il destino crudele del proprio figlio che essa tiene nelle sue braccia già morto, già fantasma esso stesso come si può constatare.

Di straordinario simbolismo in questa suggestiva ed emozionantissima tela del D’Andrea è appunto il bambino, figlio della Madonna-madre, tenuto sotto il manto bianco, morto assieme alla madre e anch’esso raffigurato come fantasma, ciò che risulta, dato il contesto esegetico fin qui esposto, una proiezione in pieno della sensibilità dell’Artista verso di sé come figlio e verso la madre scomparsa anzi tempo. Il figlio, percepito ancora bambino nella sovrapposizione con la Madonna, è morto sul piano psicologico dei sentimenti unitamente alla madre, come se, morta la madre, anche il figlio fosse morto metaforicamente con lei o fosse il suo figlio martirizzato, disperato per la sua assenza e restato legato alla propria immagine di figlio piccolo nel legame speciale che unisce madre e figlio nella gestazione e prima infanzia. Ciò in un parziale rovesciamento della vicenda mariana e cristiana che vede la madre sopravvivere al figlio morto in età adulta e non il contrario. Tale parziale rovesciamento implica e conferma come il figlio sia morto metaforicamente con la madre deceduta prima di lui, ciò che per altro è in sintonia con l’evento più tragico della vita di D’Andrea, appunto la morte della madre subita quando egli era ancora fanciullo, sopravvissuto alla madre materialmente, ma morto con essa nel suo cuore. Implica il desiderio del figlio di non vivere senza la madre, il desiderio di non superare la fase fanciullesca dove stava felice con essa.

Per concludere, un’importante nota sul titolo. Normalmente nei casi delle apparizioni dei santi e della Madonna, viene citato il luogo in cui per i fedeli è avvenuta l’apparizione o viene citato un oggetto o altro finalizzato a riconoscere la specifica apparizione. Nella fattispecie sarebbe stato un titolo nella norma Madonna del Salice con bambino o semplicemente Madonna del Salice che dà per scontata la presenza del bambino. Invece Angiolo D’Andrea ha molto sorprendentemente scomposto l’intitolazione in due parti distinte con modalità del tutto originale, la Madonna con bambino da un lato e Il salice dall’altro, indicato fra parentesi, come se si trattasse di qualcosa che stia per l’altra fuori parentesi o come spiegazione per l’altra, non tanto o non solo come indicazione del luogo dell’apparizione. Tale struttura linguistica particolare ha una motivazione principale derivabile dall’analisi del significato dell’intera opera come è stata condotta in questo studio sulla base oggettiva della spazialità dinamica identificata nella composizione ed ha come effetto la maggiore rilevanza sia della Madonna con bambino sia del salice, albero dovuto ad una scelta dell’Artista tutt’altro che casuale, bensì centrale al significato vista la presenza della struttura della grotta e del pianto riferito alla Madonna in unione al dolore umano, nonché della natura stessa partecipe in una quanto mai emozionante simbiosi. Angiolo D’Andrea ha dunque voluto esprimere la sua molto personale interpretazione della Madonna del Salice sovrapposta alla figura del fantasma della propria madre assieme al fantasma del bambino non solo figurativamente, ma anche nei termini linguistici di cui consta lo speciale titolo, elaborato diversamente dalla norma ed in perfetta sintonia con la sua altrettanto diversa elaborazione simbolica del soggetto come esposto fin qui. La Madonna e il bambino appaiono nella loro collocazione spaziale nell’al di là, mentre  il salice appare come grotta di pianto, che si associa, seppure lontanamente e con elaborazione diversa, la grotta betlemmitica che celebra la maternità in ogni caso come evento divino e splendida unione di madre e figlio.

                                                                  Rita Mascialino 


Dipinto a olio di Angiolo D'Andrea: Madonna con bambino (Il salice)




                                                                                                         

 

 

mercoledì 10 marzo 2021

RITA MASCIALINO, "APPUNTI DI SEMANTICA DELLE ARTI VISIVE: 'LE COLONNE DI LUCE' DI HEINZ MACK ALL'ISOLA DI SAN GIORGIO"  

(San Giorgio Maggiore VE (I): Realizzazione dell’Esposizione di Beck & Eggeling International Fine Art (Düsseldorf) e Sigifredo di Canossa, in collaborazione con la Fondazione Giorgio Cini con sede nel Monastero; sostegno di Trend, Vicenza: esposizione 3 giugno-23 novembre 2014, Piazzale dellIsola di San Giorgio Maggiore)

Heinz Mack (Berlino 1931) è il fondatore assieme a Otto Piene nel 1957 a Düsseldorf di una delle più grandi avanguardie nell’ambito delle arti figurative, il famoso ‘Gruppo Zero’, il quale ha dato avvio ad altre avanguardie, tra cui alla cosiddetta Arte Ottica, nota ovunque come Op Art (Optical Art).

Secondo l’esternazione di Mack le nove colonne di luce rappresentano l’uomo mentre con dignità sta eretto nello spazio. Aggiungiamo qui alcune riflessioni sulla loro esposizione all’Isola di San Giorgio Maggiore, Venezia. 

Le nove colonne di luce – alte più di sette metri e rivestite di ottocentocinquantamila tessere di mosaico in vetro con oro zecchino   sono state collocate, per la loro prima esposizione delle molte che sono seguite in tutto il mondo, nella piccola Piazza San Giorgio dell’omonima isoletta dell’Arcipelago veneziano. Girando loro attorno e guardando con speciale attenzione le prospettive che si creano verso le sommità, si scoprono sempre diverse strutture in movimento come se le colonne attirassero e riflettessero la luce solare in qualità di fasci di raggi dorati esse stesse e quasi rendessero percettibile il moto rotatorio della Terra quale astro nel cosmo. Ci vogliamo soffermare in particolare su due dei possibili sfondi su cui le straordinarie colonne di Heinz Mack si stagliano – in una esposizione all’aperto lo sfondo partecipa in ampia misura all'assegnazione di significato all’opera in qualità di contesto di sua pertinenza. Gli sfondi in questione sono forniti dal primo chiostro del Monastero dei Benedettini progettato da Andrea Palladio (XVI sec.) e proseguito da Baldassarre Longhena (XVII sec.) e dal mare sulla lunga costa veneziana da un lato e dall’altro rispetto alla Chiesa di San Marco.

Lo sfondo dato dal nucleo dell’ampio Monastero, che si affaccia sulla piccola Piazza, ha un effetto speciale sulla semantica intrinseca alle nove colonne: conferisce loro la misura d’uomo. Guardando dunque verso il chiostro rosso mattone le colonne sembrano quasi più piccole ed acquistano una dimensione del tutto umana, domestica come fossero colonne di un giardino, sontuose nella loro estetica, ma adatte ad essere comunque inserite nel contesto di una casa,quasi come in un cortile o in un giardino. Poiché l’edificio che funge da sfondo alle colonne è luogo della devozione umana, si aggiunge un ulteriore segno dell’interiorità dell'uomo, della sua spiritualità. Si tratta di colonne di luce  che fanno parte  del piccolo luogo terrestre in cui l’uomo vive e sogna bellezza e grandezza, luogo in cui ha reso per così dire concreti i potenti raggi solari catturati nelle infinite tessere d'oro, così per goderne più da vicino e palpabilmente. 

Se tuttavia le colonne sono guardate sullo sfondo del mare lungo la costa veneziana sovrastati dall’ampio cielo, Venezia appare sufficientemente lontana e lascia percepire più direttamente la prospettiva di cielo e mare. Collocate in tale sfondo marino e celeste che si collega a misure vaste e anche infinite, le colonne assumono dimensione enorme esse stesse, non più limitate dalla misura della piccola casa umana quali veri e propri menhir dell’epoca attuale, ossia opere artistiche monumentali di arcaica origine e nella fattispecie simboli fallici che esaltano la fiera autoconsapevolezza dell’uomo per la sua potenza fisica e intellettiva: il cielo introduce gli sterminati spazi cosmici, le acque marine fuori dai domestici canali della laguna lasciano intravedere la presenza della loro più propria natura di acque d’alto mare dalla gigantesca estensione. Così osservate, le nove colonne luminose appaiono a diritto come componenti dell’Universo.

Per concludere: le nove colonne di luce d’oro di Heinz Mack offrono una poderosa sintesi del genio umano in generale e artistico in particolare, sintesi che parte dal piccolo spazio terrestre dato dalla prospettiva sul chiostro benedettino, dove si evidenziano l’operosità, il senso estetico e la devozione dell’uomo, e che si espande come costruzione capace di mettersi in comunicazione con gli immensi spazi cosmici, celesti, in un’unione di microcosmo dell'uomo e macrocosmo dell'Universo dalla più profonda risonanza semantico-emozionale. Grazie alla più audace Arte dell'uomo le colonne di luce di Heinz Mack all’Isola di San Giorgio, dalla piccola Terra, dal piccolo spazio si ergono  nell’immensità dell’Universo così che il cielo comunichi direttamente con esse, con l'arte frutto prezioso della creatività umana e viceversa, come dal titolo dell'opera Der Himmel über neun Säulen The Sky Over Nine ColumnsIl cielo su nove colonne.

                                                                                                                   Rita Mascialino




 

sabato 6 marzo 2021

RITA MASCIALINO, "IL CAVALLO NERO O L'ALTRA METAMORFOSI DI FRANZ KAFKA", Saggio (Cleup Editrice Università di Padova 2011).

dalla Conclusione del  saggio: p. 110, 111-112

"(...) È stato evidenziato come vi sia una carenza di interpretazioni valide del significato delle opere letterarie in generale e come vi sia l'opportunità o la necessità di rianalizzare e reinterpretare le opere letterarie già interpretate pragmaticamente  ed in stallo quanto a ricerca scientifica ed esiti sul significato espresso dal linguaggio in cui sono redatte. Tale carenza di comprensione del fatto artistico, del significato dell'arte comporta un danno per la cultura ed un'identità sempre più piccola ed una conseguente barbarie sempre più grande per gli umani: è conoscendo, comprendendo i messaggi della fantasia elaborata in opere compiute, letterarie in primo luogo, comunque artistiche che si può conoscere profondamente l'identità umana (...) Concludo ora il volume con una a mio giudizio doverosa nota sulla lingua italiana, il filtro concettuale ed emozionale attraverso il quale la metamorfosi de cavallo nero e le altre novità esegetiche relativa allo straordinario racconto si sono identificate. Si tratta di una lingua che, se non si costruisce spontaneamente sulla angolatura logico-analitica come la può avere il tedesco ad esempio, si costruisce in compenso sul potentissimo meccanismo dell'intuizione estetica, base non solo dell'arte e della fantasia, ma anche linfa vitale dello sguardo scientifico sul mondo per quanto attiene al livello primo, quello intuitivo, delle ipotesi nella loro fase nascente. Non è quindi un caso che tale scoperta, ed anche le altre numerose concernenti significati innovativi (...) sia potuta avvenire grazie al poderoso quanto sottile strumento semantico-emozionale ed estetico fornito dalla lingua italiana, intuitiva e creativa in massimo grado. In altri termini: è il filtro estetico-intuitivo tipico dell'italiano che ha agevolato a mio giudizio la comprensione a livello profondo dei significati linguistici più creativi, più a contatto con i circuiti inconsci del cervello, un filtro che va conosciuto ovviamente in modo consono, non superficiale, e sempre confrontato con altri filtri linguistici che vanno conosciuti in modo  altrettanto consono, un filtro al quale è stata affiancata la tecnologia cerebrale deputata all'analisi scientifica fornita dal [Metodo] Spaziale elaborato da Mascialino (...) Certo, come è innegabile, la squadratura logica, la disciplina imposta dalla logica non sono in primo piano nella lingua italiana, essendo qui in primo piano la sensibilità estetica, intuitiva, creativa, ma, come ripeto, la logica più sottile ed agguerrita sta comunque nello sfondo pronta ad offrire la sua strumentazione sofisticata qualora richiesto dagli eventi e per altro si può appunto acquisire con il dovuto duro esercizio, mentre l'impostazione estetica è di meno facile acquisibilità (...) E l'italiano è un giacimento naturale di tale preziosa e meno acquisibile materia prima."

                                                                                          Rita Mascialino






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