Rita Mascialino, "Dante e l’amore di Paolo e Francesca (Divina Commedia, Inferno, Canto V): semantica letteraria"
(per il Settecentenario della morte di Dante)
Nel Canto V, Secondo Cerchio dell’Inferno della Divina Commedia dove stanno gli Incontinenti, primi fra questi i Lussuriosi, si incontrano, raffigurati tra storia e leggenda, i personaggi di Francesca da Rimini e Paolo Malatesta. Non ci interessano qui possibili corrispondenze con eventi reali, ci interessa qui solo la semantica del testo dantesco, ossia il significato del testo dantesco per quello che offre.
Dante, pur inserendo Paolo e Francesca nell’Inferno, rende il suo insuperato e insuperabile omaggio poetico all’attrazione amorosa nel suo significato più fine: nel testo dantesco Francesca parla di quell’Amor (100, 103, 106) che si accende al cor gentile (100) e ch’a nullo amato amar perdona (103) quasi come sia impossibile non cedere all’attrazione amorosa qualora si abbia un cuore gentile e si ami in tal guisa. Qui non si è di fronte alla donna angelicata che pare tanto gentile e tanto onesta quando saluta il prossimo come nel celebre Sonetto dantesco (Mascialino 2020: «Lunigiana Dantesca», N. 163), bensì si è di fronte a una donna passionale che non resiste all’attrazione amorosa quando non sia solo materiale, ma appunto sia collegata al cor gentile. Tale donna, sebbene nell’Inferno quale anima dannata per Lussuria, peccato già presente nella Lonza allegoria della Lussuria nella selva oscura (Dante, Divina Commedia: Canto I, 2), sta con gli Incontinenti, coloro che non sono stati capaci di controllare l'istinto sessuale come pure Paolo, giustifica dunque il suo cedimento e quello di Paolo in nome del cuore gentile e dell’amore che non perdona chi lo senta ardere in un tale cuore, ciò in cui essa sembra sentirsi, non troppo implicitamente, non meno colpevole, ma quasi vittima dell'amore che si accenda nei cuori gentili. L’amore, al quale i due giovani non furono in grado di sottrarsi quando lessero il passo in cui Lancillotto baciava la regina Ginevra moglie di re Artù, è dunque presentato dalla donna – è esclusivamente essa che parla con Dante, Paolo solo tace e piange –, quasi sia essa la persona legittimata a parlare di amore gentile come atto che nobilita la passione dei sensi, il piacer sì forte (104), attraverso la presenza di un sentimento nobile simboleggiato, ribadendo, nel cuore gentile. Rilevante nel testo è il fatto che il termine Amor, nella sua accezione di attrazione psicofisica tra gli umani, sta con la maiuscola all’inizio di ben tre terzine (32, 33, 34), ossia nel testo dantesco detiene una insistita preminenza con cui Dante, nel contesto senza equivoci di sorta, omaggia tale sentimento tanto intenso da farlo cadere come corpo morto cade (142) – molto esplicita nella vicenda dei due amanti è l’unione di amore e morte sul piano simbolico come massimo esito di una tale passione. Certo, la citata maiuscola è dovuta alla posizione del termine come prima parola dei versi iniziali delle tre terzine, ma si deve tenere presente che, se Dante non avesse voluto questa maiuscola, l’avrebbe molto agevolmente evitata distribuendo il termine durante i versi in diversa collocazione, come accade altrove nel Canto, e in ogni caso non l’avrebbe riprodotta per ben tre volte in tre consecutive terzine – Dante era un sommo poeta, forse il sommo dei sommi, non uno strimpellatore di versi. In questo venir meno finale di Dante, commosso fino a perdere i sensi, non si può non vedere, come per altro emerge sulla base del testo dantesco in questione, il dolore dell’uomo Dante relativamente non solo al dramma relativo a una passione amorosa tanto intensa e gentile, ma anche relativamente al dispiacere per la condanna che ha colpito, pur giustamente, i due cuori gentili, non due persone materiali o del tutto materiali dunque – Dante in aggiunta parla di dolci pensieri (113) a proposito dei due amanti, non di istinto lussurioso. Nel piano allegorico e anagogico si afferma che Dante abbia voluto rappresentare come la lussuria si dissimuli sotto mentite spoglie. Forse, sempre secondo i piani esegetici citati, Dante ha voluto consapevolmente rappresentare l’inganno della lussuria che appunto si atteggia a buoni sentimenti, ma di questo, ribadendo, non vi è traccia alcuna nel testo dantesco. Citiamo al proposito le parole stesse di Dante sul significato del testo che deve antecedere gli ulteriori significati, molto similmente alla semantica del testo che deve essere la prima ad affrontarsi quale base di tutte le altre indagini:
«6. Lo quarto senso
si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si
spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale,
per le cose significate significa de le superne cose de l'etternal gloria sì,
come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l'uscita del
popolo d'Israel d'Egitto, Giudea è fatta santa e libera. 7. Chè avvegna
essere vera secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che
spiritualmente s'intende, cioè che ne l'uscita de l'anima dal peccato, essa
sia fatta santa e libera in sua potestate. 8. E in dimostrar questo, sempre
lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri
sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere
a li altri, e massimamente a lo allegorico.» |
(Dante
Alighieri. Convivio, II.i.6-8[4]) |
Proseguendo nell'analisi della semantica del testo, Francesca è posta tra i Lussuriosi, ma il termine lussuriosa nel testo dantesco è utilizzato attraverso Virgilio per connotare Cleopatra che non pare avesse un cuore gentile nel senso dantesco. E, per altro, c’è nel testo del Canto un ulteriore omaggio eccezionale che Dante ha espresso pur mimetizzandolo nella assolutamente indiscutibile condanna divina alla pena per tutta l’eternità. I due amanti, anche se nell’Inferno ormai per sempre – la spaventosa porta dell’Inferno dura in eterno (Canto III, 8) –, sono assieme per l’eternità, nella sofferenza atroce dovuta al peccato e alla implacabile bufera, ma comunque ancora uniti nella passione reciproca, come Dante fa dire a Francesca, ossia in un’attrazione amorosa non spenta dalla bufera infernale – e a monte divina – e che, come la pena, è destinata pertanto a durare anch’essa in eterno. Persino Virgilio dice di essi che verranno da Dante per quello amor che i mena (78, ossia riconosce straordinariamente che è l’amore, non la lussuria – almeno così nel testo – che li conduce come forza al di là della bufera infernale o in seno ad essa pur relativa alla punizione. Virgilio dice inoltre che, non appena il vento le porterà verso di loro, allora potranno parlare. È da rilevare che Dante per parlare alle anime deve aspettare che il vento, nel suo sbatterle da ogni parte, le avvicini per caso nella sua furia che cessa solo quando parlano – i due spiriti sono, secondo quanto sta nel testo, anime affannate (80). Non solo, ma i due spiriti, mentre si avvicinano chiamati da Dante, sono paragonati, in una delle più stupende comparazioni dantesche, a colombe, le quali sono in genere bianche, stanno insieme fedelmente tutta la vita formando una medesima coppia, sul piano della metafora: il bianco della colomba è il colore per antonomasia dell’innocenza, della purezza, anche dell’amore nella sua manifestazione più elevata, spirituale – ci atteniamo al testo, dove le altre anime dannate, pure lussuriose come Paolo e Francesca, sono tuttavia paragonate a stornei o gru (40, 46) che si assembrano in fitti stormi e sono per altro rispettivamente nocivi alle culture e anche lamentosi nel loro canto. Il fatto è che anche in questa comparazione i due amanti sono paragonati a simboli positivi, spirituali, addirittura celesti nella simbologia cristiana - sono essi inoltre che paiono essere leggeri nella bufera, un titolo di finezza pur nell'Inferno, di meno pesantezza. L’amore quindi che, non implicitamente ma piuttosto esplicitamente nel testo, continua a vivere eternamente anche nell’al di là, addirittura nell’Inferno, l’amore come sentimento e legame indissolubile nei cuori gentili, che nessuna condanna di nessun contrappasso, pur giusta, può indebolire e tanto meno cancellare. Che la sua eternità sia collegata alla orrenda pena pure eterna nulla cambia nel fatto che i due amanti, pur piangendo e soffrendo indicibilmente, siano ancora e sempre assieme e che il loro amore, come narra la donna, viva ancora e sempre malgrado la condanna divina applicata dal Giudice infernale. Una posizione straordinaria, quella di Dante, secondo la quale – si potrebbe ipotizzare in base al testo – neppure la Giustizia divina, all’apparenza e per quanto sta nel testo, dividerebbe gli amanti a fronte del loro cuore gentile, ossia distruggerebbe il loro amore più forte di qualsiasi altro sentimento. In altri termini: sembrerebbe una posizione secondo la quale né la Giustizia divina, pur condannando nel modo più giusto e più grave la colpa relativa al peccato di lussuria, né il Giudice Infernale Minosse abbiano inteso punire gli amanti dal cor gentile, che ancora si amano nel loro sentimento assoluto, applicando la punizione più grave di tutte: la separazione eterna delle anime, degli spiriti che tanto profondamente si erano amati e continuano ad amarsi.
Così Dante, per quanto sta nel testo dedicato a Paolo e Francesca secondo la trasfigurazione poetica, avrebbe interpretato, audacemente secondo questi cenni di analisi semantica del testo e tralasciando ulteriori riflessioni, al di là di ogni sovrastruttura razionale, il sogno umano più grande, quello riferito all’amore quale sentimento di unione indissolubile di corpi e anime, quale sentimento più potente al sopra di tutti gli altri sentimenti, nobile se espresso da cuori gentili, un sentimento assoluto, quindi finalizzato di per sé a perdurare nell’eternità, sia come memoria della passione sul piano fisico, sia, e in primo luogo, come memoria della passione spirituale.