“Il polisemico
ritorno a casa di Franz Kafka.”
di Rita
Mascialino
(Studio posto a Introduzione della 2025 Rassegna 'Premio Franz Kafka Italia ®' per il Disegno Artistico XX Edizione)
Da Heimkehr (1920 senza titolo,
annotato da Kafka in un quadernino e pubblicato postumo nel 1936 da Max Brod con
il titolo Heimkehr, ‘Ritorno a casa’).
“Ich
bin zurückgekehrt. Ich habe den Flur durchschritten und blicke mich um. Es ist
meines Vaters alter Hof. Die Pfütze in der Mitte. Altes, unbrauchbares Gerät,
ineinanderverfahren, verstellt den Weg zur Bodentreppe (…) Ein zerrissenes Tuch,
einmal im Spiel um eine Stange gewunden, hebt sich im Winde. Ich bin
angekommen. Wer wird mich empfangen? Wer wartet hinter der Tür der Küche? Rauch
kommt aus dem Schornstein, der Kaffee zum Abendessen wird gekocht. Ist dir
heimlich, fühlst du dich zu Hause? Ich weiß es nicht, ich bin sehr unsicher. Meines
Vaters Haus ist es (…), aber als wäre jedes mit seinen Angelegenheiten
beschäftigt, die ich teils vergessen habe, teils niemals kannte (…) Und ich wage nicht an der Küchentür zu
klopfen, nur von der ferne horche ich (…) Und weil ich von der Ferne horche,
erhorche ich nichts, nur einen leichten Uhrenschlag höre ich oder glaube ihn
vielleicht nur zu hören, herüber aus den Kindertagen (…)”
“Sono tornato. Ho varcato l’ingresso e mi guardo
attorno. È il vecchio casale di mio padre. La pozzanghera al centro. Attrezzi
vecchi, inutilizzabili, incastrati gli uni negli altri, bloccano il passaggio
alla scala che va in soffitta (…) Un panno lacerato, un tempo avvolto per gioco
attorno a una stanga, si alza nel vento. Sono arrivato. Chi mi riceverà? Chi
aspetta dietro la porta della cucina? Del fumo esce dal camino, si sta
preparando il caffè della cena. Ti trovi
in famiglia, ti senti come a casa? Non lo so, sono molto insicuro. Casa di mio
padre lo è di certo (…), ma come se ognuno fosse occupato nelle sue faccende,
che in parte ho dimenticato, in parte non ho mai conosciuto (…) E io non oso
bussare alla porta, solo in distanza sto in ascolto (…) E siccome sto in
ascolto in distanza, non ne ricavo nulla, sento solo un leggero ticchettio di
orologio o forse credo soltanto di sentirlo, proveniente dai giorni
dell’infanzia (…)” (Traduzione di Rita Mascialino)
Franz Kafka: File:Franz Kafka and Ottla Kafka.jpg, particolare.
La citazione dal breve e complesso, nonché
straordinario scritto di Kafka mette in primo piano l’azione del ritornare a
casa, espressa lapidariamente e con il verbo durchschreiten, non privo
di una certa solennità, qui tradotto con varcare, come anche
l’azione dell’essere arrivato, altrettanto lapidaria e solenne. Ritorno e
arrivo enfatizzati che si snodano su binari simbolicamente multipli nella immaginifica
narrazione kafkiana. Sul binario concreto: si tratta della casa del padre cui
allude il profumo del caffè per il dopo cena, una casa in cui il figlio non sa se
sentirsi in famiglia pur essendo appunto il figlio. La scala che porta alla
soffitta e che è ancora disponibile per Odradek-Kafka, qui, nel ritorno del
figlio, è sbarrata dai rottami. Al binario relativo ai padri del gruppo di
origine allude implicitamente il panno ora senza stanga e lacerato, buttato via
assieme ai rottami, comunque riconosciuto come oggetto un tempo munito di
stanga, se anche solo per gioco, ossia come un vessillo, non una cosa
seriamente intesa dai grandi, dal padre che ha permesso il gioco con un simbolo
tanto importante come l’appartenenza al proprio popolo e così la sua riduzione
a rottame inutilizzabile, anche dimenticato.
Commovente è il fatto che tale simbolo implicito dell’esistenza degli
ebrei come popolo, pur se lacerato e già ridicolizzato come cosa da giochi
infantili, alzi ancora i suoi resti al vento, come in un’azione di resistenza
di chi non voglia essere cancellato per sempre, in una rappresentazione
dell’identità e della dignità del popolo ebraico, capace di alzarsi ancora
anche se semi distrutto – così nel testo kafkiano. Davvero in Kafka
l’appartenenza al suo popolo è qualcosa di vissuto drammaticamente e
profondamente, qualcosa di incessantemente doloroso. In una breve digressione:
sappiamo che Kafka verso la fine dei suoi giorni rifiutò la lingua tedesca, la
sua lingua, la lingua cui diede profondità insuperabili, causa del rifiuto: l’individuazione
in essa, molto profeticamente, del germe della violenza, ciò per cui avrebbe intrapreso,
se avesse ancora potuto, il viaggio in Palestina, per tornare all’unica vera
casa dei suoi padri come servitore del suo popolo. Tornando al racconto, sulla
scia della casa del padre concreto e della pseudo bandiera abbandonata nei
rottami, si apre nell’eco più lontana anche un terzo binario più universale
riguardante il ritorno e l’arrivo della vita al punto di partenza come percorso
esistenziale che ritorna al nulla da dove è partito. Chiariamo lo speciale
nulla kafkiano nel racconto supersimbolico. Nessun padre c’è mai stato per
Kafka, ossia il padre concreto non è, secondo il figlio, mai stato un padre per
lui e non ne ha mai aspettato il ritorno, parallelamente nessun padre celeste c’era
all’inizio né attende il reduce all’arrivo. Solo il ticchettio dell’orologio si
fa sentire nell’ambito più universale, ticchettio dell’orologio che presenta il
tempo impersonale che scorre associato molto in lontananza a cose infantili, come
possibili credenze dei piccoli nella vita. Per chiarire in aggiunta: il fatto
che il ticchettio quasi impercettibile provenga da molto lontano, non si
riferisce nella polisemica narrazione kafkiana all’infanzia del protagonista o
solo del protagonista o solo alle credenze di lontana origine del popolo
ebraico, ma si riferisce all’infanzia dell’umanità. Al proposito Kafka non usa
il possessivo relativamente a suoi giorni dell’infanzia, non dice ‘aus meinen
Kindertagen’, ma solo ‘aus den Kindertagen’, espressione che si presta
appunto a una maggiore estensione della metafora, del simbolo. Non è senza
significato, in tale ambito simbolico, il fatto che il ritorno abbia luogo di
sera: nella sera della vita, quando la si deve abbandonare come nell’intreccio
di simboli anche per Kafka ormai. Così in questa brevissima narrazione Kafka
presenta il nulla del suo ritorno alla casa concreta del padre terreno e il
nulla relativo a un eventuale implicito padre eterno che non attende chi a lui
ritorni perché sta solo come antica credenza dell’infanzia dell’umanità.
Di fronte al nulla del duplice ritorno resiste tuttavia
ancora nella mente e nel cuore di Kafka, sempre secondo quanto sta nello
straordinario racconto, lo straccio di vessillo implicitamente ma del tutto
verosimilmente ebraico – si è nel cortile della casa paterna, ebraica –, il
quale si alza ancora al vento malgrado in pezzi, come una proiezione, si
potrebbe dire eroica, del Kafka ebreo. Per concludere: Kafka, fuori dalla porta
della casa del padre, si trova accomunato ai rottami buttati via nel cortile, ossia
come essere inutilizzabile, fuori sì dalla casa paterna vera e propria e da
ogni inesistente casa celeste, assieme però al vessillo in pezzi, che ha ancora
l’estrema dignità di alzarsi comunque e ad oltranza anche se come logoro
straccio, così come ugualmente il figlio sta comunque eretto sebbene fuori
dalla porta di casa con la citata polisemia conseguente.
Rita Mascialino
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