Rita Mascialino, Riflessione 4
Introduzione
alle Riflessioni da parte di Liviana Filippina Cava Chiolo:
‘In sinergia con la Dr.ssa Rita Mascialino, a seguito di un'idea frutto di una corrispondenza letteraria, seguirà un corpus costituito da una serie di riflessioni e approfondimenti incentrati sulla mia Tesi di Laurea, dal titolo 'Pinocchio, tra palco e pellicola'. Ogni settimana, circa, verrà pubblicato una notazione che metterà in rilievo una caratteristica fisica o caratteriale di uno dei personaggi dell'opera in questione; un ambiente o una determinata scena, che porteranno alla luce il vero significato semantico dell'opera di Collodi. Una fiaba che contiene al suo interno un universo incommensurabile di significati.’ (Tesi di Laurea ‘Pinocchio tra palco e pellicola’ di Liviana Filippina Cava Chiolo - Anno Accademico 2021/22, Università degli Studi di Catania DISUM Dipartimento di Scienze Umanistiche, Relatrice Chiar.ma Prof.ssa Simona Agnese Scattina)
“Scrive Liviana Chiolo nella sua Tesi (33):
‘(…) A tutti è noto
che Geppetto vuole fare del figlio burattino un pagliaccio con determinate
caratteristiche che gli consentono, appunto, di trarne profitto. Egli afferma
nel secondo capitolo del racconto che desidera costruire: «un burattino
meraviglioso che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali. Con questo
burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchier
di vino». Questo progetto apparentemente innocuo – posto in primo piano nel
testo – fa sembrare ai nostri occhi Geppetto il buono e Pinocchio il cattivo ma
in realtà nasconde al suo interno la verità più triste e amara. Facendo
Geppetto, sul piano metaforico, un burattino del suo figlio adottivo, lo pone
in una condizione di una doppia inferiorità rispetto agli altri ragazzi, doveva
farne caso mai un ragazzino per bene, ma non lo ha fatto e nel saggio della
Mascialino emerge come tutto ciò che di buono riesce a fare lo svantaggiato
burattino è merito solo del suo cuore generoso che ha da sempre, prima di subire
l’educazione o la diseducazione cui lo sottoporrà Geppetto e come la redenzione
di sé e del padre è dovuta solo al suo buon cuore che mai perde in tutte le sue
disavventure (…)’
Per
bere il bicchiere di vino, dice Geppetto, e per guadagnarsi da vivere grazie al
pagliaccio o burattino o saltimbanco per come vuole addestrare Pinocchio, tutto
ciò espresso, come ben sottolinea la Chiolo nella sua Tesi, nel particolare
stile di Collodi che “fa sembrare ai nostri occhi Geppetto il buono e Pinocchio
il cattivo, ma in realtà nasconde al suo interno la verità più triste e amara”
(33). In questa Riflessione approfonditiva vorrei soffermarmi ancora
sull’alcolismo del padre putativo di Pinocchio aggiungendo un chiarimento alla
prima comparsa della Fata Turchina mimetizzata sotto mentite spoglie, come
vedremo. Dunque il personaggio Geppetto, adombrato implicitamente in
Mastr’Antonio, è un alcolizzato che ha come compagno di sbornie nella sua vita
solitaria solo il suo inconscio, il suo profondo, ossia Maestro Ciliegia, il
suo doppio dal naso paonazzo tipico dell’alcolizzato, come il soprannome
evidenzia sia in una divertente e allegra rappresentazione per bambini, sia in
una tremenda allusione indirizzata ai grandi, ben diversa da qualsiasi gioco
per piccoli, questo nello stile tipico di Collodi che nasconde ai piccoli e
rivela ai grandi, anche questo molto esattamente evidenziato dalla Chiolo come
nella citazione di cui sopra – chiariremo in altre Riflessioni il buon cuore di
Pinocchio. Pertanto, riflettendo,
vediamo come siano presenti i due personaggi di Geppetto adombrato in
Mastr’Antonio, il suo doppio a livello profondo, e del pezzo di legno parlante
che ancora non si chiama Pinocchio, ossia anch’esso non è presentato nella sua
completa identità. Sembrerebbe che mancasse la Fata Turchina. Al contrario, è presente
anch’essa, basta analizzare il testo nella sua semantica per così dire coperta,
implicita, allusiva. La troviamo alla fine del capitolo associata tremendamente
alla punta del naso di Mastr’Antonio-Ciliegia-Geppetto che da paonazza diventa
turchina. Essa è prefigurata implicitamente non solo nell’aggettivo “turchina”
che sarà il suo segno identitario in tutto il racconto, ma anche in altro, come
Collodi sottolinea a chiarimento per chi non associasse il colore alla Fata. Alla
fine del primo capitolo del racconto sta una particolare configurazione
tipografica che spezza il termine diventata andando a capo alla fine del
rigo con diven- e ponendo
all’inizio del rigo successivo tata. Dividendo “diven”- alla fine del
rigo e “tata” all’inizio del rigo successivo si vengono a trovare vicini “tata
turchina”, ciò con cui la consonanza o assonanza con Fata Turchina non potrebbe
essere maggiore e più evidente. La “tata turchina”, associata alla Fata, e
quasi mamma del futuro Pinocchio, al naso paonazzo di un alcolizzato fa della
Fata Turchina la compagna di un bevitore estremo, di un beone, ciò che colora
essa stessa di paonazzo, di turchino. Questo si evince dall’analisi del testo
di Collodi, che avrebbe potuto evitare nella sua revisione della bozza da
pubblicare le figure di suono della consonanza e assonanza nella separazione del
termine citato, se non ne avesse voluto l’effetto. È impossibile che Collodi,
espertissimo in giochi di parole quale era e noto per questo, non si sia
accorto di tale assonanza per così dire visibile, assonanza creata
appositamente. La Fata era anch’essa una beona? Certamente no, viene associata
però nel testo di Collodi molto corrosivamente – e inequivocabilmente – a un
beone come sua possibile compagna e, se non come mamma, tuttavia come futura facente
funzione di mamma per Pinocchio. Così i protagonisti del racconto: Maestro
Ciliegia-Mastr’Antonio-Geppetto, Pezzo di Legno Parlante, Fata Turchina, appaiono
mascherati nel primo capitolo in un capolavoro espressivo di Collodi, ben
diversamente dalla prassi esegetica consueta, tradizionale.”
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