In questo studio facente parte della 'Trilogia Dantesca' (riferimenti: saggio Dante di Rita Mascialino, Cleup Editrice Università di Padova 2021) verrà riservato il maggiore spazio all’esegesi del sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare ritenuto fondamentale per la comprensione della sfaccettata immagine della donna in Dante accanto alla citazione di passi significativi del De vulgari eloquentia. Molto rilevante è per il significato del pezzo la semantica convogliata dai termini visti nella loro diacronia, ossia tenendo conto sia del loro lungo e lunghissimo, anche di arcaica origine, viaggio nel tempo, sia dell’evoluzione continua del loro nucleo più primitivo, il quale ne ha formato lo schema spaziale spesso ancora riconoscibile nel suo abbozzo disegnato incisivamente o più debolmente, ma sempre ancora individuabile.
Chiarendo ulteriormente: nelle epoche e nelle culture il significato del linguaggio
– per quanto si sa e si ipotizza circa la sua origine – varia molo più
lentamente di quanto si possa ritenere. L’originaria spazialità dinamica
intrinseca a un significato o l’altro non si cancella in tempi brevi o medi e
rimane in linea di massima abbastanza costante come scheletro di molti concetti
il quale, pur ottenendo talora nel viaggio attraverso le epoche contorni più
sfumati, resta oggettivamente identificabile nelle principali coordinate
resistendo anche per tempi molto estesi, ciò in linea di massima. Le lingue
dunque conservano la loro impostazione generale e anche particolare al di là
delle modificazioni cui vanno incontro nel corso delle epoche. Anche il latino
classico, comprensivo delle infiltrazioni dalle varietà del latino parlato e
con i prestiti in primo luogo dal greco, continua a vivere, pur modificato
nell’evoluzione durante i secoli, nella lingua italiana, di cui forma la base e
l’apparato generale e particolare di lessico e morfologia.
Iniziando
l’analisi, spicca in special modo la presenza della complessa semantica del
verbo italiano parere, dal latino pareo-es-parui-paritum-parere,
fondamentale per la comprensione dell’immagine della stessa per come risulta
dal testo del sonetto, dall’analisi profonda dei termini e dei concetti in essi
espressi. Il significato del verbo parere viene in generale interpretato
dai critici più autorevoli e da coloro che vi si affiancano, mettendo in
evidenza come esso nel Medioevo e quindi in Dante avesse un significato diverso
da quello assunto nelle epoche successive fino a quella attuale. Questa
posizione, conformisticamente accettata dalla critica di cui sopra il cenno,
non viene condivisa nel presente studio per aspetti rilevanti ed è rivista
sulla base di approfondimenti della semantica intrinseca al verbo.
Punto
di riferimento rappresentativo per la varia critica relativamente alla diversa
interpretazione qui data al verbo parere è l’opinione dell’autorevole
critico letterario e filologo Gianfranco Contini (Domodossola 1912-1990) come dalla sua
interessante e convinta esegesi (Renatomastro1954.files.wordpress/2014/03/contini-tanto-gentile-e-tanto-onesta-pare.pdf).
Testo del sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare (Rossi
a cura di 2016: 135:136):
(1)Tanto
gentile e tanto onesta pare/
(2)la donna mia
quand’ella altrui saluta/,
(3)ch’ogne lingua
devien tremando muta/
(4e gli occhi no
l’ardiscon di guardare./
(5Eella
si va, sentendosi laudare,/
(6)benignamente
d’umiltà vestuta,/
(7)e par che sia
una cosa venuta/
(8)da cielo in
terra a miracol mostrare./
(9Mostrasi sì
piacente a chi la mira,/
(10)che dà per gli
occhi una dolcezza al core,/
(11)che ‘ntender
no la può chi no la prova;/
(12)e par che
della sua labbia si mova/
(13)uno spirto
soave pien d’amore,/
(14)che va dicendo
all’anima: sospira.
Occupandoci del chiarimento
semantico dell’italiano parere, esso è dunque l’evoluzione diretta
del verbo latino pareo-parere, tra gli altri significati apparire alla
vista fisica e in senso traslato. Si legge al proposito (Renatomastro154, op. cit., 24): «essenziale
anzi, determinare che pare non
vale già ‘sembra’, e neppure soltanto ‘appare’, ma ‘appare evidentemente, è o
si manifesta nella sua evidenza’». È il caso qui di sottolineare che, per quanto
ciò che appare appaia evidentemente o si manifesti nella sua evidenza, l’apparire,
in se stesso, non è mai andato esente, né può andare esente né lo potrà dalla semantica
del sembrare, come andiamo a constatare in dettaglio.
Si rende opportuno al proposito
inserire un cenno parallelo di analisi del concetto dell’apparire come
inteso nell’antichità già dai filosofi presocratici fino ai giorni nostri,
fermandoci a Platone e Aristotele in quanto la loro conoscenza era al centro
della cultura scolastica, ecclesiastica, medioevale, tra gli altri attraverso
Severino Boezio, Aberto Magno e San Tommaso d’Aquino, filosofi il cui pensiero
era noto a Dante. Sintetizzando: un tema del pensiero filosofico antico e
medioevale – ribadendo: fino a Kant e ai giorni nostri – era proprio il
contrasto tra l’apparire da un lato e l’essere o la sostanza o l’essenza e
simili dall’altro, ossia la differenza tra il fenomeno e il noumeno, tra la
realtà apparente e la verità della conoscenza oltre l’apparenza fornita
dall’esperienza dei cinque sensi ingannevole e contraddittoria per quanto
potesse apparire evidentemente. Può essere utile alla comprensione
dell’argomento anche la digressione qui di seguito inserita. Il latino videor è
sia deponente con diatesi attiva nel senso di sembrare, sia come
vero e proprio passivo di video, vedo, nel significato
di essere visto. Sembrare alla vista ed essere visto, ossia essere
evidente in quanto visto, sono espressi in un medesimo verbo collegato
all’essere visibile in senso concreto ed esteso ed è il contesto linguistico e
concettuale dal punto di vista logico a decidere quale delle due sfumature
semantiche sia quella più opportuna. Nel testo del De vulgari
eloquentia (Coletti a cura di 1991/2018) Dante usa videtur sia come
deponente, sembra, sia come passivo di video, viene-è
visto, quindi nel significato di è evidente, appare, passi in cui
risultano per altro più o meno corrette sia l’una che l’altra sfumatura – si
tratta infine di uno stesso verbo. In altri termini: quanto in latino classico
o medioevale – pareo e videor – o
diacronicamente in volgare italiano o nell’italiano attuale abbia a che fare,
come sua base, con l’apparire alla vista, aree sinonimiche
comprese, può essere vero o meno vero per quanto evidentemente possa parere quindi sembrare vero e anche esserlo, ma anche non esserlo,
questo è il problema semantico centrale intrinseco al concetto espresso dal
verbo pareo, apparire, anche da videor nelle due
accezioni di sembrare e di essere visto che si compenetrano nel profondo della loro spazialità. Come accennato, a Dante erano note le
tonalità semantico-concetttuali intrinseche all’apparire e al parere, compresa
quella relativa al sembrare, come risulta dall’uso di tale verbo nei vari
contesti delle sue opere. In aggiunta segue qui una nota relativa all’italiano. Anche
l’evidenza scientifica o prova – dal latino evideor, apparire interamente
da lontano, coniugato come il deponente videor, sembrare –
non è definitiva, né assoluta, ma relativa, ossia può sembrare una prova e non
esserlo, ciò che sta alla base della possibilità di progresso delle conoscenze
ed evidenze.
La breve digressione per rilevare ancora
come la problematica intrinseca all’area semantica dell’evidenza, dell’apparire
con evidenza o evidentemente come in Contini e critica a lui consimile, abbia
alla sua base l’apparire anche come possibile sembrare non a
partire dall’attualità, ma sin dall’antichità a oggi pur con le sfumature
relative ai diversi filosofi e studiosi. In altri termini: per sottolineare
come l’essere evidente e il sembrare facciano parte di un unico molto complesso
sguardo sul mondo al di là delle più immediate ed evidenti o superficiali
considerazioni ed esistito come minimo dai primi filosofi per così dire ufficiali della grecità.
Tornando al significato cosiddetto
medioevale di parere-apparire, escludente il significato del sembrare secondo
Contini come pure secondo la generalità della critica che condivide la sua
autorevole opinione, risulta per lo meno sorprendente, se non impossibile, che
nel Medioevo, in Dante che scriveva opere non solo in volgare italiano, bensì
anche in latino medioevale, il significato di pareo, apparire
alla vista con chiarezza, ma, come qui sostenuto, anche nella sfumatura
di sembrare implicita e connaturata all’apparire alla vista,
abbia interrotto d’un tratto nel volgare italiano medioevale la sua lenta
diacronia semantica per riprenderla poi nell’evoluzione linguistica successiva
al Medioevo – perché anche oggi parere, apparire ingloba
immancabilmente il sembrare. Per chiarire ulteriormente: un po’come se si fosse
creata sul piano analogico una – impossibile – pausa o, detto con una catacresi,
enclave semantico-temporale per parere privo del
significato di sembrare da sempre rappresentato come la storia
del pensiero umano dimostra e più sopra accennato, ossia come se la spazialità
semantica originaria latina avesse interrotto in seno al Medioevo il viaggio
nel tempo e fosse ricomparsa nella sua originaria integrità esplicita e
implicita dopo il Medioevo fino ai giorni nostri.
In ogni caso, nel Medioevo il
verbo parere come risulta in questo studio, secondo i contesti in cui esso si trova, è inteso
regolarmente nelle varie prospettive semantiche, ivi compresa quella del sembrare,
come ad esempio in Dante, tra l’altro anche nella ‘Canzone Prima’ Voi
che ‘ntendendo il terzo ciel movete (Giunta
a cura di 2019: 103-104), ciò anche se l’interpretazione di
Contini viene sempre ritenuta valida dai critici successivi:
(58) che non ti paian
d’essa bene acorte,/
Nella parafrasi (Giunta a cura di 2019: op. cit.,
102):
Che non ti sembrano
afferrarne (…) il senso
dove il significato di apparire
evidentemente in paian non avrebbe alcun significato,
parafrasi esplicativa che ben rende la particolare polisemia di parere dal
punto di vista del sembrare espresso nel verbo parere, apparire –
forse potrebbe essere valido anche il congiuntivo sembrino in
piena corrispondenza con il congiuntivo dantesco paian. Si
potrebbe obiettare che il contesto testuale del sonetto rispetto a quello della
citata Canzone siano diversi, ma Contini parla di significato medioevale
diverso in generale, non relativo a contesti vari.
Segue dunque l’analisi del
significato di tale verbo parere nei versi citati.
(1)Tanto gentile e tanto onesta
pare/
(2)la donna mia quand’ella altrui
saluta,/
La donna pare e appare gentile e onesta quando saluta, ciò che rappresenta, a livello conscio o inconscio ma non meno vero o anche più vero in seno alla creatività artistica nella fattispecie, una relativizzazione e limitazione del suo apparire tanto gentile e tanto onesta: appare o anche si manifesta gentile e onesta quando saluta, non in generale e questo è un dato di fatto, testuale e letterario, logico e artistico come si voglia intendere. Insistere sulla grande evidenza, come in Contini e seguaci, inserirebbe per altro, per quanto vagamente, anche una certa ostentazione del suo essere gentile e umile, con ciò divenendo il contesto incoerente per qualche verso, forse anche con qualche frangia di risibilità.
Passiamo al secondo par nel
settimo verso in cui esso, ancora con soggetto sottinteso ella in
coordinazione alla principale, regge una proposizione secondaria:
(7)e par che sia una cosa venuta/
(8)da cielo in terra a miracol
mostrare./
Nei due versi (7) e (8) il
significato di parere come apparire evidentemente o mostrarsi
evidentemente, intendendoli privi dell’accezione del sembrare,
risulta secondo questo studio scarsamente accettabile e attendibile, come
andiamo a chiarire.
L’insistenza nell’interpretare
l’immagine di Beatrice sulla più evidente evidenza scevra da ogni sembrare ne
farebbe quasi una presenza di cosa o fenomeno venuto realmente dal cielo a
mostrare la potenza di Dio. Dante avrebbe anche potuto pensarla effettivamente
così, ma non lo ha fatto: si tratta solo di un senso esteso di parere come
metafora, come iperbole poetica relativa al reale, ossia Beatrice,
medioevalmente e dantescamente parlando, pare-appare-sembra per
la sua suprema bellezza un’apparizione inviata da Dio a salutare i passanti, ma
nulla nel testo c’è che rimandi ad un vero miracolo relativo a qualcosa che sia
stato inviato concretamente da Dio, si tratta, ribadendo, di un concetto
metaforico.
La critica di Contini appare, con
tutto il reiterato rispetto per l’autorevolezza del critico, non esente da qualche
discutibilità ulteriore. Ad esempio (Renatomastro154,
op.cit., 28), si trova l’affermazione secondo
la quale da un lato il verbo parere nelle terzine della poesia
sottolineerebbe l’evidenza dell’apparire di Beatrice e dall’altro qualunque
visualizzazione [sarebbe] estranea alla figurazione dantesca,
ossia: da un lato vi è l’apparire con grande evidenza alla vista, dall’altro
contemporaneamente vi è l’inadeguatezza di una qualsiasi possibile
visualizzazione della sua apparizione, ciò che è la negazione o la
relativizzazione dell’apparire evidentemente alla vista. Puntualizzando: il
termine figurazione è direttamente collegato alla possibilità di
visualizzazione, ciò con cui l’estraneità della visualizzazione relativa
all’immagine di Beatrice non può sussistere se non in una contraddizione. Si legge
inoltre come l’apparire di Beatrice riguardi un’incarnazione di cose celesti (Renatomastro154, op.cit., 29), ciò con cui viene espresso il corrispondente effetto
visibile – anche e soprattutto l’incarnazione, non solo la figurazione, implica
la possibilità di visualizzazione di quanto incarnato. Vi sono inoltre non poche interpretazioni particolari che si allontanano dal testo. Ad esempio, il termine donna, dal latino domina,
ossia padrona, signora, sia in sé, sia in quanto
riferito a Beatrice che è di genere femminile, diviene termine con
desinenza femminile puramente grammaticale, in cui il genere non segna
opposizione (Renatomastro154, op.cit.,
24), ciò in una concettualizzazione
che non trova conferma in seno al testo e al significato del sonetto, ma solo
trova fondamento in idee sovrapposte al testo e ritenute in questo studio arbitrarie. Per Contini basta che in portoghese si possa usare il maschile
anche per il femminile, ossia signore per signora, che anche in
Dante il femminile diviene solo genere grammaticale, mentre in realtà – realtà
secondo Contini – la donna, Beatrice, acquisisce significato
nel suo valore maschile. Un termine maschile onorifico per la donna il quale
forse doveva nobilitare la donna, un essere in sé di scarso valore come tale
visto che acquisisce valore con il genere maschile, cosa non solo assurda, ma anche offensiva a parte l'eventuale significato allegorico. L’idea che donna,
chiaramente femminile nel testo dantesco del sonetto si possa riferire al
femminile come desinenza grammaticale e non realmente ad un femminile relativo
a Beatrice trova, per così dire, un senso qualora il critico voglia
implicitamente legittimare la propria opinione non oggettivamente fondata nel testo secondo la quale Beatrice viene considerata allegoricamente una figura cristologica, ossia in
ogni caso maschile, ciò che qui non si condivide in considerazione di
quanto sta nella semantica del testo linguistico specifico del sonetto. Così
anche sull’analogia di un dettaglio – gente che correva o accorreva per vedere
Cristo quando passava – si è costruita, in seno al tentativo di spiegare la
figura di Beatrice con allegorie e riferimenti allegorici, l’interpretazione di Beatrice quale figura riferibile a
Cristo. Non pare per altro che Cristo elargisse saluti, bensì risulta dalle
testimonianze che parlasse ai popoli, mentre la bellissima Beatrice non dice
cosa alcuna nel sonetto, solo sì, essa saluta a destra e a manca in tutta
umiltà per quanto consapevole ovviamente della sua sfolgorante bellezza capace
di far sognare chi la guardasse. Questo per dire che non c’è una sola cosa che
possa giustificare quello che qui appare come l’ingiustificabile, solo la costruzione esteriore resta a
disposizione di tale tipologia di critica peraltro autorevolissima. Certo, Beatrice nella Divina Commedia è
guida di Dante nel Paradiso, così come nelle esegesi fondate sulle allegorie essa diviene la personificazione della Filosofia e della
Teologia, nonché emanazione della Trinità in Dante stesso per via di simbologie
numerologiche o allegoriche, non però per via della ragione che resta appannaggio di
Virgilio, un maschio.
La lunga premessa sul verbo pareo-parere-apparire nel celebre sonetto che dovrebbe angelicare Beatrice e che invece, nel profondo, non nei sensi allegorici, inciampa per così dire appunto nella complessa semantica intrinseca indelebilmente nell'uso comune e filosofico a pareo-parere-apparire, onde giungere alla doppia valutazione della donna da parte di Dante. Di fatto, nella visione del mondo più realistica e meno poetica di Dante sta inequivocabilmente una non lieve svalutazione della donna, se non addirittura la detrazione della donna come essere inferiore all’uomo nell’intelligenza, nella personalità, come molto esplicitamente nel De vulgari eloquentia ad esempio e non solo.
Aggiungo un chiarimento sulla denigrazione della donna che poteva o forse doveva essere comprovato da Dante per un motivo diverso, ossia per il fatto che avesse parlato con il demonio con tutte le conseguenze del caso rispetto al discorso di Adamo con Dio, ma Dante dice altro. Dice espressamente che a parlare per prima sia stata una donna, la presuntuosissima Eva e continua per altro a confermare il suo fraintendimento che a parlare per prima sia stata una donna, tralasciando il filone già chiaro nella Genesi: Adamo ha parlato per primo nominando le specie animali ed esprimendo la sua infelicità a Dio per la mancanza di qualcuno come lui e la sua felicità per il dono di Eva come compagna, mentre Eva ha parlato al di là di ogni equivoco per seconda, per di più con il diavolo, non con Dio. Dante nella sua sembra ferrea volontà di denigrazione della donna sbaglia, mi permetto di dire sulla base delle sue affermazioni a proposito del primo e del secondo confondendo la successione degli eventi (Coletti a cura di, De Vulgari eloquentia 2017: 8-9) e, trasportando il discorso dal particolare all'universale, ossia da Adamo ed Eva al genere umano, contestando così la parola di Dio nelle Sacre Scritture:
"(...) Ma anche se nelle Scritture si trova che ad aver parlato per prima [ciò che non sta nelle Scritture] stata una donna, è egualmente più ragionevole credere che ad aver parlato per primo sia stato un uomo; e, in effetti, non è congruo pensare che un così, egregio atto del genere umano sia opera prima di una donna che di un uomo. Ritengo perciò ragionevole che allo stesso Adamo sia stato dato il parlare per primo da Colui che proprio allora lo aveva plasmato (...) "
Dante contesta dunque ciò che nella Bibbia è esplicito e cin ciò, nell'eco, anche Dio stesso che secondo lui avrebbe dovuto far parlare Adamo per primo - ciò che ha fatto effettivamente al di là dell'abbaglio dantesco. Ribadendo, nelle Scritture si trova inequivocabilmente che sia stato Adamo ad aver parlato per primo: Adamo parla - vedi nomi degli animali - quando ancora non esisteva Eva, ossia quando Eva non era ancora stata plasmata dalla sua costola, e quando Adamo parla felice di aver ricevuto una compagna, Eva non ha ancora aperto bocca. In base a questo - clamoroso - abbaglio Dante dà giustificazioni del fatto che Eva abbia parlato nelle Scritture per prima, accumulando ulteriori inesattezze che confermano ancora di più l'abbaglio. Come mai un abbaglio così clamoroso, ci si deve chiedere a questo punto? Credo che l'errore sia avvenuto per il fatto che Eva abbia comunque parlato rispondendo a Dio mentre forse secondo il pensiero, inespresso consapevolmente, di Dante sarebbe dovuta stare zitta, parola di Eva che deve aver offuscato la vista dantesca al di là di ogni desiderio allegorico, dico forse per questo, non trovo altre cause plausibili per un errore tanto assurdo in un esperto di religione, Bibbia e simili. Un lapsus freudiano in piena regola. Per eccellenza, degno della grandezza e della visione del mondo di Dante. Per altro, ciò con cui concordo pienamente, anche il curatore del De vulgari eloquentia, Vittorio Coletti, cita nella nota N. 1 del IV Libro (107), il lapsus di Dante senza entrare in maggiori dettagli. In ogni caso la versione di Eva che avrebbe parlato per prima sta solo in Dante. Ribadendo: è possibile ritenere che una tale novità straordinaria non si trovi anche in qualche altra versione volgarizzante della Bibbia e soprattutto non stia nell’originale biblico tradotto in italiano testo a fronte da Samuele Davide Luzzatto (1858) sulla base dell’originale biblico e greco e di ulteriori testi nonché interpretazioni? Luzzatto nella sua traduzione mette suoi chiarimenti ritenuti opportuni tra parentesi proprio perché non possano essere considerati come facenti parte del testo originale, tanto è il rispetto della semantica, della verità dei testi nella metodologia esegetica rabbinica. Ritengo che sia da escludere assolutamente, conoscendo appunto il fulcro dell’esegesi rabbinica che è l’adesione alla lettera, il ritorno costante durante l’interpretazione alla lettera del testo in traduzione e interpretazione per non lasciarsi andare a scostamenti dal significato del testo – lettera da non confondersi con il concetto di letteralità la quale può non tener conto della polisemia del linguaggio.
Dopo il chiarimento sul fraintendimento dantesco, torniamo al celebre sonetto. In esso comunque
la donna sembra tutto e non è niente, sembra tutto nell’irrealizzato sogno
dantesco del femminile, il quale è capace di trasfigurare Beatrice con la propria arte
suprema della poesia.
Venendo dunque all’ultima
terzina (12-14) il terzo par regge una
secondaria soggettiva che contiene il sostantivo labbia:
(12)e par che della sua labbia si
mova/
(13)uno spirto soave pien d’amore,/
(14)che va dicendo all’anima:
Sospira//
Labbia è termine derivato dal latino (labium)labia-labiorum,
(labbro)labbra confluito nel volgare italiano con l’uso di labbia al singolare
nel senso di volto. Che uno spirito d’amore appaia evidentemente e si mostri
evidentemente muovendosi dal volto o dalla fisionomia generale della donna (Renatomastro154., op. cit., 22-25) e
dica di sospirare all’anima di chi veda tale spirito pieno d’amore sfocerebbe
nel risibile, risibilità che, ovviamente, potrebbe anche esserci in Dante dato che nessuno è infallibile, ma che non c’è e
scompare completamente qualora il verbo parere, che ha per soggetto
la frase secondaria soggettiva retta dalla congiunzione ipotattica che,
sia inteso nell’accezione semantica del sembrare, d’uso legittimo
anche nel Medioevo e già da sempre dalla latinità fino ad oggi e che si può
ritenere lo sarà anche domani e dopodomani e così via, viste le caratteristiche
concettuali dell’apparire, dell’essere evidente, visibile. Per altro la
presenza del congiuntivo si mova (12) aggiunge ulteriore
incertezza relativa a parere o apparire evidentemente, a
quella che secondo la critica citata dovrebbe essere una certezza quasi
assoluta o magari anche assoluta. Secondo la spazialità propria del verbo parere dunque
nel latino e nel volgare medioevale e nell’italiano attuale non vi è alcuna
opposizione semantica tra parere, apparire e sembrare e
meno che mai vi è opposizione nel contesto del sonetto tutto incentrato
innanzitutto sul sembrare anche se non solo, ossia: sembra
veramente una cosa venuta dal cielo, appunto sembra proprio, ma in Dante non è – malgrado affermino al contrario con decisione Contini e critica a lui conforme –, bensì
vi è solo molto fine e profonda complessità del concetto espresso
linguisticamente nel verbo in questione ab origine senza, per
usare una metafora, enclave temporale e concettuale nel Medioevo. Quanto
al d’umiltà vestuta (6), l’umiltà si addiceva al comportamento
della donna che doveva e magari deve ancora essere umile oggi da qualche parte
nel mondo, l’autoconsapevolezza pare essere legittima, implicitamente, solo ai
maschi, non compete alla donna, così è stando al testo del sonetto. Beatrice sembra
dunque essere veramente cosa meravigliosa che giunge in terra mandata da Dio
che così mostra la propria grandezza, all’apparenza un maschio pure lui,
felicemente unito agli uomini in terra nell’ammirazione per la donna che vale
quindi per la sua bellezza quando ce l’ha, ma non per altro. Una donna gentile e
bellissima ovviamente: una donna non bella non avrebbe diritti nel sogno
dantesco, di impronta maschile e divina, come accennato. Coerentemente, la
ragione, l’intelligenza, l’autoconsapevolezza, la saggezza non le si addicono,
sono impersonate da Virgilio, un maschio – solo nell’allegoria senza basi nel testo, nella pura costruzion e esteriore Beatrice può impersonare la Filosofia – non certo
della scienza come appare dai contesti – e la Teologia, quindi una filosofia
religiosa, sottomessa alla divinità. Si potrebbe obiettare che anche i maschi
lo fossero, non così Dante che in molte occasioni si erge a giudice dello
stesso Dio anche esplicitamente, ma di ciò non è qui il discorso specifico.
Sembrerebbe dunque che la donna gentile rappresenti la donna buona, per bene, che sappia stare al
suo posto e che, pur facendo sognare i maschi in un sensuale erotismo
spiritualizzato in qualche modo ed essendone consapevole, nonché ponendosi come
modello per le altre donne, rimanga umile, ossia non insuperbisca per gli
effetti della sua bellezza. Una donna che tutti gli uomini vorrebbero avere
come moglie o compagna o sorella o madre, una donna completamente inserita in
seno al suo ruolo di piena sottomissione al mondo delle più variegate esigenze
maschili, come appaiono nel sonetto. Quanto alla rilevanza del significato del
verbo parere nel sonetto a proposito di Beatrice, essa,
secondo il testo, pare, appare e parendo e
apparendo sembra dotata di tutte le qualità mentre
saluta, qualità desiderate da Dante, dall’uomo e dal poeta, qualità che essa
appunto potrebbe mostrare senza avere in realtà, proprio grazie all'uso comune del verbo parere.
Come donna in generale essa, che può parere apparire e sembrare ciò che non è,
si rivela, in base alla diversa opportunità una donna forgiata secondo il letto
di Procuste delle richieste e necessità della personalità dantesca e in
generale maschile nel Medioevo, immagine femminile traghettata anche nell’epoca
attuale, una donna gentile, assoggettata alle richieste maschili. In altri
termini: qualora si analizzi la donna gentile o meno gentile di Dante per
quanto di essa appaia, essa risulta una donna svalutata come essere umano e
sottomessa: non parla, solo saluta umilmente conscia del suo splendore, ossia
mostrando la sua bellezza con umiltà, con modestia, senza insuperbire per l'ammirazione altrui, tutto qua. Il dolce stil novo e
l’idealizzazione della donna – non ci interessano qui i risvolti sociali della
nobiltà d’animo e non di casato rivendicati dall’incipiente autoconsapevolezza
borghese – in un’immagine costruita secondo i desideri maschili risultano,
in questa analisi, categorie dello spirito dantesco e modalità del potere
maschile di tutti i tempi. In questo, tra il molto altro, Dante è uomo anche
moderno, così come pure l’uomo moderno è uomo anche medioevale.
Concludendo con un giudizio basato
sulla Commedia: a Virgilio, uomo, l’audace compito di fungere da massimo
modello artistico di poesia, nonché da guida negli ambiti della ragione
unitamente alla libertà, compagna inseparabile della natura della ragione; a
Beatrice, donna, il casto compito di fungere da guida negli ambiti della
religione unitamente alla sottomissione, compagna inseparabile della natura
della
religione.
Rita
Mascialino
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