Alex Cittadella (Palmanova 1980) è dottore di ricerca in Storia e cultore in Storia moderna presso il Dipartimento di studi umanistici e del patrimonio culturale dell’Università di Udine. È docente di materie letterarie negli Istituti di Secondo Grado di Udine. È divulgatore scientifico, in particolare nell’ambito della storia della scienza e dei saperi meteorologici e climatici. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni scientifiche quali saggi nelle discipline citate e monografie. È poeta.
La silloge poetica Generazioni (Pasian di Prato UD: Campanotto Editore: Prefazione di Caterina Licata: 2019) di Alex Cittadella sorge da una prospettiva di verità aperta dal poeta su se stesso, la quale si fa visione schiusa sul mondo interiore dell’uomo universale. La raccolta tratta i grandi temi propri della lirica, tra gli altri: il senso della vita e della morte, l’amore, la qualità della natura umana in bilico tra le due forme – informi – dell’Assoluto e dell’Abisso.
Assoluto inteso non solo come nulla riferito alla disgregazione della struttura psicofisica che attende l’uomo, ma anche e soprattutto come metafora dell’alto, cui l’uomo di Cittadella tende, deve tendere per essere degno della sua umanità. Questa tensione si verifica senza scivolamenti in superomismi di sorta, ossia sempre permanendo nell’alveo dei più umani sentimenti. Se il Superuomo nietzschiano vuole superare i limiti della sua umanità più fine rischiando di sfociare o sfociando nella disumanità così dimenticando una più umana essenza, l’uomo di Cittadella, pur volendo anch’egli ottenere il massimo da sé, non oltrepassa la sua sensibilità e ipersensibilità, che è la sua forza e nel contempo limite invalicabile dell’umano. Entro tale ottica il Prometeo di Cittadella vuole essere uomo straordinario, capace sì di sognare e di realizzare quanto il fuoco inconscio della sua creatività di artefice della propria vita consegna alla sua consapevolezza, ma scevro tuttavia della più superba affermazione di sé come nel Prometeo ritratto nel poderoso Inno goethiano – l’uomo di Cittadella, il poeta in particolare, sa, come dall’immagine di biblica memoria, di essere nato dal fango e non si contrappone con tracotanza agli dei, più semplicemente li ignora.
Abisso inteso non solo come baratro oscuro e senza fine in cui scomparire per sempre come in un buco nero che attrae la vita dentro di sé come una spaventosa calamita e da cui non affiorare mai più, ma anche e soprattutto come metafora dell’audace esplorazione delle profondità più insondate in cui si genera l’animo umano.
Il poeta Alex Cittadella vuole entrare in contatto con il mistero della vita più direttamente per mezzo dell’intuizione estetica, non solo con la riflessione razionale, ma oltre essa, ossia vuole attingere possibili verità al loro livello nascente, più originario e creativo, appunto intuitivo che si rivela mezzo di conoscenza non ancora sfrondato dalla schematizzazione del pensiero scientifico, per certi aspetti quindi più profondo. Questa audace meta non è inficiata da alcun pregiudizio di superiorità, bensì è sempre accompagnata dalla consapevolezza del limite umano segnato dall’umiltà che spesso assume qualche accento crepuscolare di eco corazziniana. La fragilità umana, l’insicurezza di poter raggiungere la desiderata comprensione, di poter uscire dalla situazione di solitudine e di inadeguatezza rispetto all’ardua finalità di conoscere se stesso al di là della superficie convenzionale, dell’ovvietà della norma, trovano un riparo nel sentimento d’amore dell’altro e per l’altro, nella donna che appare di per sé invincibile in quanto partecipe naturalmente degli arcani della vita e che riflette sull’uomo, qualora questo stia in una relazione senza remore con essa, con il suo vissuto, con i suoi ricordi, ciò in uno scambio di esperienze esistenziali che risulti vivificatore per entrambi pur nella tregua concessa dai sentimenti più dolci. L’uomo di Cittadella tuttavia non può cessare dal ricercare la verità della vita e per questo è e resta un funambulo pericolosamente sospeso tra assoluto e abisso di memoria kierkegaardiana, oscillante sul vuoto con l’angoscia di essere ingoiato da queste due potenti manifestazioni del nulla tra i cui poli sta esposto in posizione incerta, a rischio di soggiacere alle raffiche che lo fanno traballare su una sottile e scomoda corda su cui deve reggersi. Un po’, per quanto diversamente negli esiti, come il trapezista kafkiano che altro non può che vivere la sua esistenza confinato quale acrobata su un trapezio cui ne vuole appaiare un altro di fronte a sé – su cui non sta nessuno – come due possibili poli sul vuoto sottostante, quello su cui sta lui e quello per un eventuale altro che non c’è, in perfetta solitudine e vuoto umano – non esente da qualche ombra di solipsismo seppure sapientemente mimetizzato da Kafka per così dire kafkianamente. Un uomo, tornando a Cittadella, costretto a stare in equilibrio sul baratro, attento a non cadere, in una metaforica spazialità, in basso nell’Abisso e neppure a volare in alto nell’Assoluto perdendo così la misura più umana della vita e la vita stessa nelle citate due facce del nulla, dalla quale condizione solo la fede può o potrebbe, salvarlo, fede dunque, non certezza, fede che pare permanere sul medesimo livello in cui potrebbe stare un’illusione. Diversamente dall’incertezza della fede, il pur esile filo fornito dai sogni si rivela non illusorio e al contrario capace di sorreggere l’uomo nel suo periglioso ondeggiamento tra l’assoluto e l’abisso, sogni che in quanto tali, come testé accennato, potrebbero apparire per qualche aspetto simili alle illusioni, ma che non coincidono con esse, né costituiscono una fuga dal reale, bensì sono una realtà essi stessi, la più tenace e resistente, nonché valido motivo di vita.
Personaggi quasi onnipresenti nelle liriche di Cittadella sono appunto la notte e il sogno che compaiono spesso dando alla creazione poetica la sua veste propria: quella oscura del più creativo inconscio, quella dell’immaginazione più audace – ad occhi chiusi e aperti –, libera e scevra dall’obbligo del riscontro con il reale, un’immaginazione con cui il poeta tesse i suoi mondi psichici, non illusori per quanto intangibili, esprimenti la verità più profonda dell’umana identità. La rilevante presenza del sogno associa uno dei più grandi e forse a ragione il più grande poeta romantico tedesco, Federico Hölderlin, di cui vi sono frequenti echi: O! ein Gott ist der Mensch, wenn er träumt, ein Bettler, wenn er nachdenkt, come nel romanzo epistolare Hyperion, Iperione, O! un Dio è l’uomo quando sogna, un mendicante quando riflette, così che l’uomo fuori da questo spazio metaforicamente divino steso tra i poli della Begeisterung hölderliniana e della Ernüchterung, dell’esaltazione e dell’insobriamento, si trova spaesato, perduto. Anche in Cittadella i sogni, pur su un piano meno estremo e più umano, sono assoluti e veri, capaci di superare il tempo e gli spazi, capaci di andare ovunque senza l’impedimento della materia, capaci di corrispondere alla più vera e più nobile natura dell’uomo poeta, che si fa o anela a farsi profeta dell’umanità – anche qui in sintonia con Hölderlin per il quale Was bleibet aber, stiften die Dichter come in Andenken, Ciò che resta però, lo fondano i poeti –, concetto ripreso anche da Foscolo nella sua poetica romantica, dunque in Cittadella: poeta quale novello vate che in quanto tale può parlare di verità, così in questa raccolta.
Una doverosa parola sulla bella poesia che dà il titolo alla raccolta, Generazioni:
“Generazioni
Trepido un raggio
Si posa a colorare
le spoglie dei morti
che abitano
ogni centimetro
di terra e la vita
risorge
con la forza
di mille generazioni.”
Ancora una volta risuona lontana l’eco dei versi di Hölderlin come nella lirica Die Entschlafenen, Gli assopiti, e non solo. Il romantico Hölderlin riconosce il debito dei viventi ai morti che li hanno preceduti quali radici imperiture dell’uomo. La vita, dice Cittadella da un’angolazione meno eroica – il raggio di sole è trepido, ma non meno efficace nel contesto -, prende forza da tutte le generazioni trascorse, vissute dai morti che abitano la terra in tutta la sua estensione e sulle cui spoglie splende comunque un raggio di sole, un raggio che le illumina nella speranza di dare vita alla loro memoria nei viventi. Sono i morti che fanno risorgere più forte la vita, questo in un ricordo che si fa vivo nella storia, nella cultura, nella pietas suscitata dagli affetti dell’uomo. Splendida poesia, importante messaggio per tutti, per i giovani stessi contemplati implicitamente nel concetto relativo alle generazioni, giovani che tanto distanti sono dalla morte, ma che rappresentano gli uomini che diventeranno trascorsi in una catena che deve essere indissolubile tra morti e vivi, fatta di vita della memoria, non solo del presente e del futuro, questo per il bene dell’umanità, come secondo il testo lirico di Cittadella.
Il discorso sulla poesia di Cittadella dovrebbe andare molto oltre l’ambito di una recensione, ma qui si deve interrompere onde lasciare lo spazio all’analisi almeno di una ulteriore lirica, di cui fra poco.
Dapprima ancora una breve parola sullo stile semplice del poeta Alex Cittadella in questa silloge, che rifugge da ogni senso aulico o meno che mai pretenzioso. La forma, in cui si strutturano le settanta liriche, è quella dei versi brevi e liberi, privi di rima. L’interpunzione è data da punti, virgole, qualche raro punto di domanda che rappresenta lo stupore dell’uomo rispetto alla sua misteriosa condizione esistenziale. Rilevante è l’uso del punto a chiusura delle composizioni quale baluardo contro possibili dispersioni e dissoluzioni del significato espresso in ciascuna di esse, come tentativo di creare uno spazio semantico di sicurezza nella spazialmente infinita estensione della mente, di fornire un mappatura ideale in cui salvaguardare l’identità di ogni singola intuizione.
Veniamo ora, come annunciato, all’analisi semantica di una sola lirica, Nostalgia dell’abisso.
Testo dellalirica Nostalgia dell’abisso (87-88):
“Nostalgia dell’abisso
Mi sono chinato
a raccogliere i sogni
mentre la notte si dissolveva
fra riflessi di luce
e foglie di tè dal sapore
di porti orientali.
Ho navigato oltre
i confini del cielo
su di un veliero
ammaestrato di nuvole
e al risveglio
avevo tra le mani
il sapore burrascoso del mare,
sulla pelle le pieghe saline
di corde trattenute
con troppa foga
contro il destino,
nei capelli il rinfrangersi perpetuo
e inarrestabile dei pensieri.
Ci saranno attracchi sicuri
e case inondate di luce,
donne dalla pelle di cera
e sorrisi avvolti in volti
dai risvolti consueti.
Ma il mio animo
imbizzarrito e inquieto
cercherà ancora l’inarrestabile
nostalgia dell’abisso.”
Si tratta di una lirica stupenda in cui l’anima del poeta trova profonda espressione. Il perno concettuale ed emozionale del testo sta nel veliero ammaestrato di nuvole, ossia con l’albero maestro fatto di nuvole o che ha le nuvole come punto di forza e di resistenza della nave per l’orientamento in un cielo dove non vi sono punti di riferimento tangibili, ossia nei reami dello spirito, della fantasia, dell’immaginazione creativa. Il termine “ammaestrato” significa anche altro: significa che i maestri del poeta, coloro che gli hanno insegnato qualcosa, non sono la concretezza, la tangibilità delle cose, ma ciò che non è materiale, ossia il pensiero e le emozioni, di questo consta il meraviglioso viaggio oltre i cieli di Cittadella. Il poeta, quando la notte svanisce verso le prime luci del mattino si desta e si piega a raccogliere i sogni, il chinarsi indica il rispetto del poeta nei confronti del frutto del suo viaggio notturno oltre i confini del cielo – come Ulisse voleva andare oltre i confini della Terra e per questo ha abbandonato la tranquilla vita degli affetti familiari. Si china per raccoglierli, per non lasciare che svaniscano con la notte stessa, tanto preziosi essi sono e di questo viaggio porta sulle mani le rughe dovute al sale del metaforico mare e alle corde che ha dovuto tirare con forza per governare lo speciale veliero perché non si andasse a sfracellare contro gli scogli del destino che sempre ci sono sul cammino dell’uomo, mentre nei capelli ha avuto la voce perpetua dello sconfinato mare celeste – o Assoluto, ma anche Abisso come più sopra nei concetti abituali della ricerca poetica di Cittadella. Certo, di fronte a tale pericoloso navigare stanno baie sicure per l’ormeggio, la sosta, e case piene di luce – inondate comunque anch’esse sebbene di luce, come se persino la luce non possa che rischiare di sommergere l’uomo o limitarne ossimoricamente la vista –, anche donne che attendono in quiete. Molto interessante è la descrizione di tali donne nel contesto dei sogni più avventurosi. La loro pelle è di cera, come fossero figure di cera e non esseri viventi. I loro sorrisi sembrano avvolti nei loro volti dai risvolti del consueto, del solito, quasi anche i sorrisi non fossero che vivi in sedicesimo – l’insistenza sul volgere e riavvolgere sui volti, essi stessi per definizione prodotto dell’avvolgere, associano, assieme al concetto del consueto e della nostalgia per l’abisso, l’avvolgimento nel sudario, quasi questa pace che tali donne offrono corrisponda alla stasi della non vita per il poeta che rifugge da essa e da chi la offre come modo di non pensare, di non sentire il mormorio del mare grosso dei pensieri, di non sentire l’attrazione del viaggio pericoloso verso l’ignoto nella notte, verso l’insondato. Quasi il consueto sia per il poeta un po’ come un volto della morte del pensiero, dell’indagine sulla vita, in una vita nel chiuso di un orizzonte piccino. Un’immagine sinistra questa di tali donne come di cera e dispensatrici di quiete, una stasi che non è gradita al poeta il cui spirito non vuole riposare, attratto dalla nostalgia verso le profondità dell’oscuro in cui esplorare per trovare la verità della sua umanità, della sua essenza umana, del senso della vita. Di nuovo si presenta l’associazione con Ulisse e il suo desiderio di ascoltare il richiamo dell’abisso, del fascino dell’ignoto: il poeta si può fermare nelle case di luce protette nella baia con donne che dispensino pace nella stasi, nel consueto, nel già noto, lontano dal rischio che comporta l’esplorazione di ciò che non si conosce, dell’insolito, quasi in un sonno che dia l’oblio dall’inquietudine esistenziale più creativa, ma sente comunque inarrestabile il richiamo dei suoi pensieri, per esplorare i misteri dell’abisso da cui sorgono e non restare prigioniero del piccolo spazio e vivere così quasi già da morto. Ribadendo: come l’allusione ai volti di cera e ai citati avvolgimenti lasciano emergere.
Si tratta per l’uomo di Cittadella di scegliere tra una vita tranquilla, senza turbamenti soverchi, in un porto sicuro perché privo ormai di qualsiasi segreto, privo per questo della spinta ad approfondire la vita, e un’esistenza invece capace di sentire e anche seguire ignoti richiami provenienti da abissi spirituali che reclamano ascolto da parte del poeta, l’uomo più adatto a entrare in contatto con essi, a instaurare coraggiosamente un rapporto creativo con il profondo per quanto ciò possa essere inquietante per i motivi accennati più sopra – gli abissi sono oscuri e ci si può perdere, nonché vi si può cadere dentro senza ritorno, come in un labirinto in cui non sia più possibile trovare la via di uscita. Una nostalgia verso l’abisso malgrado il rischio che esso comporta, soprattutto perché, osando il rischio, nell’abisso si possono trovare tesori preziosi per lo spirito, questo secondo l’audacia dell’esploratore-poeta, sembra dire Alex Cittadella nella sua bellissima lirica e nell’intera silloge.
Rita Mascialino