Rita Mascialino, “ 'Come il fondo del mare', racconti di Alberta Vidal"
Alberta Vidal (Palmanova UD 1956) vive a Udine. Docente nella Scuola Primaria, è scrittrice di racconti e poetessa insignita di prestigiosi riconoscimenti, nonché inserita in diverse antologie poetiche. Ha partecipato dal 2014 al 2019 ai lavori del Gruppo Femminile di Scrittura “Anna Achmatova con riunioni a Udine e con pubblicazione collettiva del libro Le eroine del mito (Edizioni Kappavu). Nel 2020 ha pubblicato con Campanotto Editore la raccolta di racconti Come il fondo del mare, di cui qui presentiamo alcune tematiche importanti contenute soprattutto nella prima.
Dal volume di racconti Come il fondo del mare (Pasian di Prato UD: Campanotto Editore: “Quelle della 27”: 13-101)
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“(…) Nessuna di noi può fare progetti e sappiamo che sarà diverso da come lo pensiamo adesso, il futuro che ci attende, sarà più duro. Ma si è aperto uno spazio per l’immaginazione. Fuori era mancato il tempo per immaginare, si deve immaginare nei tempi compressi tra il supermercato e il parcheggio, e la chiamano libertà. In molti modi ti possono togliere la libertà, senza tempo non si è liberi e neanche senza soldi si è liberi. Rinchiuse dentro una cella non lo siamo ma forse nemmeno quelle che hanno tutto, che possono viaggiare e vestir bene, andare al cinema e a teatro quando vogliono,sono più libere di noi, la libertà, per quel che ho potuto intravedere in certi mo menti di grazia, mi pare sia uno stato interiore (…) Il carcere è il luogo in cui io diventa noi, per un processo spontaneo e irreversibile di ampliamento, per la ricerca dell’orizzonte così insita in noi quando siamo costrette in un luogo chiuso, sorvegliate a vista. Noi cinque, qui dentro, abbiamo trovato il modo di andare d’accordo e ci aiutiamo a vicenda, non siamo mai sole come invece fuori eravamo. Per questo a volte mi vien da pensare che quelle libere siamo noi. Abbiamo tempo, tutto il tempo che vogliamo per disegnare, leggere, scrivere e anche per fare quelle cose che nessuna fa più e sono così rilassanti, i ricami, i lavori a maglia, l’uncinetto. Abbiamo i muri della cella decorati di disegni di animali che fa Lara, una tigre tra le felci della foresta occhieggia sulla parete tra il letto di Luisa e il mio, di fronte alla finestra un cammello procede solenne tra dune e cactus; non mancano mai sul nostro tavolino squallido di legno scrostato le stoffe colorate e belle, uscite di cesti di Luisa, canestri di giunco sparsi in giro per la cella e strapieni di stoffe, lane e roba per cucito. Ritaglia, scampoli, nastro. Paccottaglia e roba inutile, che diventa utile quando decidi di farci qualcosa. Le scatole nelle mani di Lara sono scatole da scarpe decorate con ritagli di riviste come pure i portapenne, rotoli di carta igienica riciclati e divenuti robusti per via degli strati colla e carta da giornale appiccicati sopra. Abbiamo tempo per leggere i libri lunghi come il “Conte di Montecristo” che sta leggendo Anita, lei che non aveva mai letto altro che romanzetti rosa adesso si sprofonda in altri luoghi e in altri tempi dove trova risposte al senso di smarrimento che tanto a lungo l’aveva accompagnata, trova riflessioni sui grandi temi dell’ingiustizia e della vendetta, del tempo che ci vuole per passare da questa al perdono (…)”
La raccolta si suddivide in due parti: la prima è dedicata al racconto lungo Quelle della 27 a sua volta suddiviso in diversi capitoli riguardanti diverse detenute nella cella 27 e di cui l’ultimo capitolo dà il titolo al volume, parte ambientata nella sezione femminile del carcere sito, secondo l’informazione che dà esplicitamente l’Autrice, nell’isola della Giudecca, Venezia; la seconda dal titolo Racconti è dedicata a personaggi vari cui sono riferite le singole vicende.
I temi presentati nei racconti sono numerosi e tutti rilevanti, impossibile farne una trattazione sufficiente in una recensione per dare almeno un’idea della ricchezza di pensiero contenuta in questa raccolta, per cui ne sono stati scelti solo alcuni che ne sono un po’ un emblema.
Il racconto lungo Quelle della 27 non è tuttavia visto solo come esperienza femminile della detenzione, bensì si colloca in una prospettiva diegetica più ampia, relativa alla più generale condizione della donna tout court, alla sua personalità, come andiamo a vedere per qualche punto chiave in questa presentazione.
Al centro del racconto sta la riflessione sul tempo che nel carcere si dilata al punto che le donne ivi detenute si sentono addirittura più libere di quanto fossero quanto vivevano fuori, nella normale vita cosiddetta libera. Secondo l’Autrice, la libertà di cui gode la donna nella normale vita civile non è proprio tale perché essa, oltre al lavoro, è oberata di impegni di famiglia e responsabilità che gravano soprattutto o soltanto su di essa, magari anche in povertà o scarsezza di mezzi. Allora il carcere diviene nell’ottica di Alberta Vidal come un luogo ideale per la donna che – in uno straordinario ossimoro – può vivere più liberamente la sua personalità, ossia può conoscersi più profondamente, un luogo dove può anche farsi una cultura e riflettere sui grandi temi della vita, sull’ingiustizia e la vendetta, anche sul perdono, scambiandosi opinioni con le altre compagne di sventura o può esprimere la sua creatività in preziose attività trascorse: ricami, lavori a maglia, a uncinetto, disegni, pittura, scrittura. Contrariamente a quanto si può pensare vedendo certi film sul carcere, quello della Giudecca sembra essere, almeno nella rappresentazione apparentemente contro corrente che ne fa Alberta Vidal un luogo poco meno che idilliaco, pur nella segregazione rispetto alla vita sociale esterna, un luogo dove la solidarietà femminile può svilupparsi fino a diventare anche amicizia. Le stoffe colorate, i ritagli di tessuti che in genere si buttano via come inutilizzabili scarti, gli scampoli che costano poco sono il materiale che la realtà del momento mette a disposizione della donna carcerata in questa sezione ed essa ne fa meraviglie, capace di trarre vantaggio dal negativo che la sua esistenza le ha posto come inciampo nel suo da sempre faticoso procedere. Riflettendo stimolati dal bel libro della Vidal, i ritagli, gli scampoli, le cose non importanti, ciò che resta di quanto è appannaggio di altri più fortunati è anche quanto, almeno nel lunghissimo passato, è stato destinato alla donna appartenente alla massa, non all’aristocrazia o al ceto ricco, rimasugli dunque di cui tuttavia la donna, con la sua fantasia e la buona disposizione del suo cuore ha fatto da sempre tesoro per quanto ha potuto senza perdere la sua ottica positiva verso la vita.
Importante è l’aspetto sociale che interessa diverse carcerate. Accanto a questo tema variamente elaborato dall’Autrice, emerge un concetto molto interessante, sul quale non si può che concordare in pieno. Vi sono carcerate che sono state trascurate dalle madri – dai padri è cosa considerata quasi normale nella società di taglio maschilista – impegnate attivamente e per altro positivamente nel sociale, nella lotta contro le ingiustizie. L’Autrice, pur anch’essa interessata al sociale, denuncia con chiarezza come il sociale non debba togliere tempo ed energie alla famiglia, all’educazione dei figli, questo soprattutto da parte delle madri, la cui responsabilità nella formazione della prole viene implicitamente elevata a perno della qualità della società costituita dalle generazioni future.
Emerge nelle varie storie di cui si compone il lungo racconto e nel libro in generale quanto sia difficile per la donna mantenere una buona relazione con il partner, per un motivo o per l’altro essa viene abbandonata e magari ripresa a piacimento dall’uomo che in questi frangenti per così dire cade sempre in piedi e che nei racconti, non di rado, è per questo figura che appare marginale, ciò da cui si desume come l’attrice importante della vita sia ancora e sempre la donna in un modo o in un altro sfruttata. Alle storie narrate nel libro di Alberta Vidal è implicito appunto un insegnamento importante per la donna: forse è tempo per essa di non dipendere più così massicciamente dall’affetto di un uomo, dalla sua capacità o incapacità di avere sentimenti, di essere fedele. Forse è ormai il momento che qualcosa di importante muti nella personalità e nella visione del mondo della donna, sembra dire la Vidal, ossia che essa raggiunga ciò che non ha ancora raggiunto: una maggiore autonomia nella gestione di se stessa nella società.
Interessante libro, quello di Alberta Vidal, dallo stile narrativo volutamente semplice e scorrevole fino a coincidere con il quotidiano, capace di calarsi nel reale della vita, senza edulcorazioni, senza pretese di grandezza, appunto con la semplicità che contraddistingue l’esistenza di personaggi, donne in particolare, ma anche uomini, appartenenti alla grande massa di umani costretti a vivere nel piccolo raggio di anonime esistenze. L’ultimo sottocapitolo del racconto cui è stato accennato in questa recensione ribadisce come il carcere abbia insegnato molto alle donne ivi recluse e come la speranza in un futuro migliore non venga mai meno, per quanta sofferenza sia stata introiettata, ossia come la vita abbia comunque il sopravvento sul dolore.
Prima di concludere, una parola ancora sul titolo di tale sottocapitolo che dà come anticipato il titolo stesso alla raccolta: Come il fondo del mare. Si tratta di una suggestiva immagine evocativa di una molto misteriosa e inquietante oscurità a copertura della ricchezza di arcaici depositi minerari e metallici, per estrarre i quali occorre appunto scendere coraggiosamente nelle profondità più distanti dalla superficie, discesa nel fondo marino che è metafora molto calzante per chi voglia scandagliare la personalità dell’essere umano, ciò che questo libro di Alberta Vidal si propone di attuare, discesa tuttavia che come ogni nuova esplorazione pretende audacia, ampiamente ripagata visti i sedimenti che i milioni e i miliardi di anni hanno accumulato nel fondo del mare – ancora sul piano metaforico: nel profondo della storia e sconvolgente preistoria della natura dell’uomo.
Rita Mascialino