giovedì 28 agosto 2025

 

Franz Kafka o l’impossibile reduce nella casa del duplice padre

di Rita Mascialino

 

Testo della nota di Kafka (1920 senza titolo, scritta da Kafka in un quadernino e pubblicata postuma nel 1936 da Max Brod con il titolo Heimkehr, ‘Ritorno a casa’):

“Ich bin zurückgekehrt. Ich habe den Flur durchschritten und blicke mich um. Es ist meines Vaters alter Hof. Die Pfütze in der Mitte. Altes, unbrauchbares Gerät, ineinanderverfahren, verstellt den Weg zur Bodentreppe. Die Katze lauert an dem Geländer. Ein zerrissenes Tuch, einmal im Spiel um eine Stange gewunden, hebt sich im Winde. Ich bin angekommen. Wer wird mich empfangen? Wer wartet hinter der Tür der Küche? Rauch kommt aus dem Schornstein, der Kaffee zum Abendessen wird gekocht. Ist dir heimlich, fühlst du dich zu Hause? Ich weiß es nicht, ich bin sehr unsicher. Meines Vaters Haus ist es, aber kalt steht Stück neben Stück, als wäre jedes mit seinen Angelegenheiten beschäftigt, die ich teils vergessen habe, teils niemals kannte. Was kann ich ihnen nützen, was bin ich ihnen und sei ich auch des Vaters, des alten Landwirts Sohn.  Und ich wage nicht an der Küchentür zu klopfen, nur von der ferne horche ich, nur von der Ferne horche ich stehend, nicht so, daß ich als Horcher überrascht werden könnte. Und weil ich von der Ferne horche, erhorche ich nichts, nur einen leichten Uhrenschlag höre ich oder glaube ihn vielleicht nur zu hören, herüber aus den Kindertagen. Was sonst in der Küche geschieht, ist das Geheimnis der dort Sitzenden, das sie vor mir wahren. Je länger man vor der Tür zögert, desto fremder wird man. Wie wäre es, wenn jetzt jemand die Tür öffnete und mich etwas fragte. Wäre ich dann nicht selbst wie einer, der sein Geheimnis wahren will.”

 

“Io sono tornato. Ho varcato l’ingresso e mi guardo attorno. È il vecchio casale di mio padre. La pozzanghera al centro. Attrezzi vecchi, inutilizzabili, incastrati gli uni negli altri, bloccano il passaggio alla scala che va in soffitta. Il gatto è appostato alla ringhiera. Un panno lacerato, un tempo avvolto per gioco attorno a una stanga, si alza nel vento. Io sono arrivato. Chi mi riceverà? Chi aspetta dietro la porta della cucina? Del fumo esce dal camino, si sta preparando il caffè della cena. Ti è familiare, ti senti a casa? Non lo so, sono molto insicuro. Casa di mio padre lo è di certo, ma freddi stanno i singoli individui uno vicino all’altro, come se ciascuno si occupasse degli affari suoi, che io in parte ho dimenticato, in parte non ho mai conosciuto. A che cosa posso servire, che cosa sono per loro, e sia io anche il figlio del padre, del vecchio coltivatore della terra. E non oso bussare alla porta, solo in distanza sto in ascolto, solo in distanza sto in piedi in ascolto, non così da poter essere sorpreso come uno che origlia.  E siccome sto in ascolto in distanza, non riesco a sentire nulla, sento solo un leggero ticchettio di orologio o forse credo soltanto di sentirlo, proveniente dai giorni dell’infanzia. Che altro accade in cucina, è il segreto di coloro che là siedono e lo serbano davanti a me. Quanto più si indugia davanti alla porta, tanto più estranei si diventa. Come sarebbe se adesso qualcuno aprisse la porta e mi chiedesse qualcosa. Non sarei allora io stesso come uno che vuole serbare il suo segreto.”    (Traduzione di Rita Mascialino)

 

Franz Kafka (1906), Alamy Stock Photo

La complessa annotazione scritta da Kafka mette al primo inizio la cosa importante: l’azione del ritornare a casa, espressa lapidariamente e specificata subito dopo con il verbo durchschreiten, qui tradotto con varcare, come anche con l’azione dell’essere arrivato, altrettanto lapidaria e solenne, ritorno e arrivo enfatizzati nel testo tedesco dalla lapidarietà, dal punto che impone dopo la sola azione del verbo una pausa e, nella traduzione qui proposta, azioni enfatizzate attraverso l'esplicitazione del soggetto, non necessaria in italiano. Le due frasi lapidarie implicano una, pur brevissima, pausa del respiro nel protagonista, emozionato come nell’espressione linguistica di cui sopra pur nel controllo sovrano – ma non insensibile – dello speciale reduce. Una parola sulla commozione kafkiana. Si tratta di un sentimento tenuto a bada molto razionalmente ed elegantemente in questo autore, nella fattispecie: quasi come se l’uomo che tornasse a casa avesse un nodo alla gola pensando al proprio ritorno, così da avere bisogno di una pausa nel respiro prima di proseguire. Ritorno e arrivo che si snodano su binari simbolicamente multipli nella immaginifica narrazione kafkiana. Sul binario concreto: si tratta della casa del padre riconosciuta come tale dal figlio e cui allude il fumo della preparazione del caffè del dopo cena – ma già qui il fumo, in tale contesto, è anche un segno della distruzione –, una casa in cui il figlio non sa se sentirsi in famiglia pur essendo appunto il figlio. La scala che porta alla soffitta – e che è ancora disponibile per Odradek-Kafka nel racconto La preoccupazione del padre di famiglia –, nel ritorno del figlio, è sbarrata dai rottami accumulati come se ci fosse stata una tempesta. Ma la casa kafkiana è sempre duplice. Al binario metaforico allude la presenza del panno ora senza stanga e lacerato, buttato via assieme alle cose abbandonate, comunque riconosciuto come oggetto un tempo munito di stanga, se anche già solo per gioco, comunque ad evocazione di un vessillo, già dall’infanzia comunque non una cosa seriamente intesa dai grandi, dal padre che ha permesso il gioco ai piccoli con un simbolo tanto importante come  verosimilmente l’appartenenza al proprio popolo e così la sua riduzione a straccio inutilizzabile, dimenticato tra le cose da buttare via.  Commovente è il fatto che tale simbolo implicitamente dell’esistenza degli ebrei come popolo – e dell’umanità stessa come vedremo subito –, pur se lacerato e già ridicolizzato come cosa da giochi infantili, alzi ancora i suoi resti al vento, come in un’azione di resistenza da parte di chi non voglia essere cancellato per sempre, come in una rappresentazione dell’identità e della dignità del popolo cui si riferisce, capace di alzarsi ancora, ad oltranza, anche se semi distrutto e scacciato da ogni luogo, senza casa – così nel polisemico testo kafkiano. Davvero in Kafka l’appartenenza al suo popolo e all’umanità stessa è qualcosa di vissuto drammaticamente e profondamente, qualcosa di incessantemente doloroso. In una breve digressione ritenuta opportuna: sappiamo che Kafka verso la fine dei suoi giorni rifiutò la lingua tedesca, la sua lingua madre cui diede profondità insuperate e prevedibilmente insuperabili, adducendo quale causa del rifiuto: l’individuazione in essa, molto profeticamente, del germe della violenza, ciò per cui avrebbe intrapreso, se avesse ancora potuto, il viaggio in Palestina, dove avrebbe voluto servire il suo popolo, come ebbe a scrivere egli stesso. Tornando al racconto, ad un certo punto Kafka si riferisce ai familiari utilizzando il termine Stück, pezzo, vocabolo che è idoneo nella quasi totalità dei casi a designare oggetti inanimati. Solo in un caso si può riferire a persone, considerate tuttavia con ironia o con deprezzamento – vedi genere neutro del vocabolo e del pronome jedes ad esso riferito, deprezzamento di cui è la semantica nel racconto. E certo non si può pensare – tranne stando fuori dalla logica – che gli oggetti abbiano faccende di cui occuparsi e che il protagonista non abbia mai conosciuto queste faccende, come risulta da traduzioni della libera interpretazione. In italiano il vocabolo pezzo non si adopera mai per le persone, per cui è stato scelto nella traduzione di cui sopra il termine individui, qui pure con sfumatura poco positiva, e si è aggiunta la comparazione con oggetti per specificare al meglio il significato insito nel termine Stück come appunto del pronome di riferimento jedes neutro, riduttivo nel contesto come genere attribuito a persone.

Proseguendo, sulla scia della casa del padre concreto e della bandiera abbandonata nei rottami, si apre nell’eco anche un terzo binario più universale riguardante il ritorno, l’arrivo della vita al punto di partenza come percorso esistenziale che ritorna là, da dove è partito, ossia il ritorno al padre dell’umanità, che come vedremo subito, non esiste altro che in credenze fallaci, di un’umanità infantile. A conferma, un’osservazione sul termine Landwirt, composto con Land, terra, paese, sopra tradotto con coltivatore della terra. Un termine, Land, che si addice al binario concreto nel senso di appezzamento di terra e anche a quello simbolico di terra come luogo in cui vive l’umanità, per altro un termine che compare spesso nella narrazione kafkiana, anche ad esempio nel anche nel famoso racconto Vor dem Gesetz, Davanti alla Legge, per qualificare l’uomo che si presenta appunto davanti alla Legge per essere accolto in essa, ossia ein Mann vom Lande, un uomo di campagna, nella metafora un uomo che proviene dalla Terra, spostandosi in tal modo l’ambito da quello terreno a quello metafisico. Così anche qui il vecchio coltivatore della terra è il padre concreto, agricoltore, ma anche il padre nel più ampio spazio della Terra, il proprietario o padrone metafisico – ricordiamo che nel racconto biblico il padre universale è il creatore della Terra, per così dire il proprietario terriero, sempre permanendo nel livello plurisimbolico del racconto, dell’opera kafkiana.  

Specifichiamo meglio questo speciale ritorno kafkiano nel racconto supersimbolico. Nessun padre c’è mai stato per Kafka, ossia il padre concreto non è, secondo il figlio, mai stato un padre per lui e non ne ha mai aspettato il ritorno come quello di uno di famiglia – l’ingresso è reso difficile dai rottami sparsi. Parallelamente il padre per così dire celeste c’era all’inizio della vita, ma solo nelle credenze di un’infanzia concreta e metaforica, per cui nessuno, non solo Kafka, può ritornare da qualche parte, da qualcuno, se non c’è niente e nessuno ad attenderlo, ad accoglierlo. Di fatto solo il ticchettio dell’orologio si fa sentire nell’ambito concreto e più universale, ticchettio dell’orologio che presenta il tempo impersonale che scorre per l’esistenza associato molto in lontananza alla duplice età infantile, come possibili illusioni dei piccoli in padri provvidi e dell’umanità bambina, ancora fiduciosa in padri celesti. Ribadendo: il fatto che il ticchettio quasi impercettibile provenga da molto lontano o non ci sia per niente – il tempo è muto per come vi allude Kafka con il fatto che forse non vi sia neanche un ticchettio, ossia domini nella realtà delle cose solo il nulla più muto –, non si riferisce nella polisemica narrazione kafkiana solo all’infanzia del protagonista, dei bambini, ma coinvolge anche l’infanzia dell’umanità, epoca in cui potevano sorgere e sussistere credenze e come speranze vane. Al proposito, a conferma, Kafka non usa il possessivo relativamente a suoi giorni dell’infanzia, non dice ‘aus meinen Kindertagen’, ma solo ‘aus den Kindertagen’, espressione che si presta appunto al meglio alla metafora, al simbolo universalmente esteso all’umanità. Non è senza significato, in tale ambito simbolico, il fatto che il ritorno abbia luogo di sera: nella sera della vita, quando sì è vicini alla notte, all’abbandono della vita come, nell’intreccio di simboli, per Kafka stesso ormai anche concretamente – sarebbe morto di lì a pochi anni. Kafka crede di sentire e vorrebbe sentire, origliando senza assumere la tipica spazialità più o meno curva dell’origliatore, qualcosa della vita della duplice casa, ma sente solo la voce del tempo che scorre del tutto impersonale come ticchettio dell’orologio. Così in questa brevissima narrazione Kafka presenta il nulla del suo ritorno alla casa concreta del padre terreno e il nulla relativo a un eventuale implicito ritorno al padre eterno che non attende chi a lui ritorni perché sta appunto solo come antica credenza nell’infanzia dei bambini e dell’umanità intera, come segno del potere sugli uomini, sui figli comunque nella fattispecie.

Di fronte al nulla del duplice ritorno resiste tuttavia ancora nella mente più recondita e nel cuore di Kafka, sempre secondo quanto sta nello straordinario racconto, lo straccio di vessillo implicitamente ebraico – si è nel cortile della casa paterna, ebraica, dove il padre non ha onorato la sua origine scegliendo la cultura e la lingua tedesca, soprattutto per il figlio, e lasciando l’ebraismo in piccole, insignificanti liturgie. Tale straccio di bandiera si alza ancora al vento malgrado in pezzi e abbandonato fuori dalla casa, come una proiezione, si potrebbe dire eroica, del Kafka ebreo, in pezzi, ma ancora consapevole di essere un ebreo – per quanto errante – nella sua implacabile ricerca di verità. In aggiunta, sempre sul piano più esteso della narrazione come è stato qui individuato: anche l’umanità secondo Kafka risulta errante e niente di più né di diverso.

Il racconto termina con il segreto di coloro che siedono nella casa – sempre metaforicamente duplice –, segreto che conservano davanti al figlio senza nulla aver mai rivelato o chiarito in proposito, ma nel finale c’è anche il segreto che potrebbe avere Kafka stesso e che conserverebbe, di cui quindi non si saprebbe niente, ma che si può inferire dal contesto implicito della narrazione: il segreto relativo al non illudersi sulla figura di padri incapaci di essere tali ed esistenti solo come duplice volto di un potere assoluto, come inganno per la credulità degli ingenui. Ancora un’osservazione sul plurale che compare relativo a coloro che siedono in essa, allusione ai genitori e alla doppia paternità inesistente. Il fatto che siedano evoca, sempre nel contesto, spazialità di un potere assoluto, che non ascolta né da spiegazioni, ma che pretende sottomissione non interessandosi altro che del proprio potere, come il protagonista ha ormai ben chiaro nella sua disillusa e non lieta visione del mondo.

Per concludere con una breve sintesi: Kafka, fuori dalla porta della casa del duplice padre, si trova accomunato ai rottami buttati via nel cortile, fuori sì dalla casa paterna senza un padre degno del ruolo e senza un padre celeste. Tuttavia non è da solo, bensì si trova in compagnia del vessillo lacerato, che ha ancora l’estrema dignità di alzarsi comunque per continuare ad esistere con la propria indomita individualità anche se come logoro straccio *, così come ugualmente l’impossibile reduce  sta dritto, non curvo, non piegato sebbene fuori dalla porta della polisemica casa cercando di ascoltare se vi sia vita all’interno, appunto restando eretto, senza cedimenti, sentendo null’altro che lo scorrere del tempo, ossia nulla. Sta non solo in qualità di ebreo errante per eccellenza che, scacciato da tutti o non accettato da nessuno, non può ritornare da nessuna parte perché è venuta a mancare l’illusoria duplice meta, ma parallelamente nella qualità esistenziale di uomo senza possibilità di tornare dai padri perché inesistenti come tali. Kafka sceglie dopo un’esistenza di ostinati dubbi l’unica verità che gli resta incrollabile: quella che lo vede resistere nella propria identità storica fatta di rifiuti e lacerazioni, identità di appartenente alla sua cultura di origine, appartenenza che in Kafka spazza via una volta per tutte il potere della paternità biologica proiettata in quella divina sostituite dall’appartenenza culturale tutta terrena e solo terrena, per precaria che essa sia, tuttavia l’unica capace di resistere all’analisi ad oltranza di Kafka.

Così termina l’analisi dell’annotazione senza titolo di Kafka, ulteriori tanti dettagli sono stati tralasciati per non appesantire troppo la lettura dell’analisi, avendo trattato comunque ciò che schiude la semantica di superficie e profonda della narrazione kafkiana.                                                                                    

                                                                                                                      

 

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*Nel racconto Das Urteil Kafka dà una descrizione del suo amico – in realtà il suo doppio (Mascialino 1997: Franz Kafka-Racconti scelti-Traduzioni testo a fronte e analisi: Campanotto Editore: 32-33: Collana Le carte tedesche: Postfazione di Giorgio Cusatelli: Prefazione dell’autrice) – che anticipa nell’elaborazione spaziale il reduce che sta con i rottami in Heimkehr: ‘(…) An der Türe des leeren, ausgeraubten Geschäftes sah er ihn. Zwischen den Trümmern der Regale, den zerfetzen Waren, den fallenden Gasarmen stand er gerade noch (…)’, ‘Sulla porta del vuoto e saccheggiato negozio lo vedeva. Tra le macerie degli scaffali, le merci stracciate, i bracci cadenti dei lumi a gas, stava ancora dritto in piedi (…)’. Il racconto presenta il tema dell’ebraismo, al centro della visione del mondo di Kafka, attraverso l’amico del protagonista, come anticipato il suo doppio, ma ancora il figlio vive con il padre e parla con lui, non sta fuori dalla porta – l’amico sta sulla porta anch’esso, né dentro né fuori dal negozio in rovina come le merci, i tessuti lacerati mostrano. Nell’evoluzione della kafkiana visione del mondo, in Heimkehr la decisione è ormai presa, nessun discorso è più possibile, nessun inganno, resta solo l’appartenenza culturale, che non è quella tedesca in cui è vissuto tanto profondamente, ma quella ebraica. En passant: il titolo del racconto Il giudizio, come nella traduzione di R. Mascialino nel testo citato, è diverso dai vari titoli esistenti, i quali in ogni caso non corrispondono al significato del termine tedesco, ma sono frutto della libera interpretazione, come viene spiegato nell’analisi dei titoli contenuta.




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