Franz
Kafka o l’impossibile reduce nella casa del duplice padre
di
Rita Mascialino
Testo
della nota di Kafka (1920 senza titolo, scritta da Kafka in un
quadernino e pubblicata postuma nel 1936 da Max Brod con il titolo Heimkehr,
‘Ritorno a casa’):
“Ich bin
zurückgekehrt. Ich habe den Flur durchschritten und blicke mich um. Es ist
meines Vaters alter Hof. Die Pfütze in der Mitte. Altes, unbrauchbares Gerät, ineinanderverfahren,
verstellt den Weg zur Bodentreppe. Die Katze lauert an dem Geländer. Ein
zerrissenes Tuch, einmal im Spiel um eine Stange gewunden, hebt sich im Winde.
Ich bin angekommen. Wer wird mich empfangen? Wer wartet hinter der Tür der
Küche? Rauch kommt aus dem Schornstein, der Kaffee zum Abendessen wird gekocht.
Ist dir heimlich, fühlst du dich zu Hause? Ich weiß es nicht, ich bin sehr
unsicher. Meines Vaters Haus ist es, aber kalt steht Stück neben Stück, als
wäre jedes mit seinen Angelegenheiten beschäftigt, die ich teils vergessen
habe, teils niemals kannte. Was kann ich ihnen nützen, was bin ich ihnen und
sei ich auch des Vaters, des alten Landwirts Sohn. Und ich wage nicht an
der Küchentür zu klopfen, nur von der ferne horche ich, nur von der Ferne
horche ich stehend, nicht so, daß ich als Horcher überrascht werden könnte. Und
weil ich von der Ferne horche, erhorche ich nichts, nur einen leichten
Uhrenschlag höre ich oder glaube ihn vielleicht nur zu hören, herüber aus den
Kindertagen. Was sonst in der Küche geschieht, ist das Geheimnis der dort
Sitzenden, das sie vor mir wahren. Je länger man vor der Tür zögert, desto fremder
wird man. Wie wäre es, wenn jetzt jemand die Tür öffnete und mich etwas fragte.
Wäre ich dann nicht selbst wie einer, der sein Geheimnis wahren will.”
“Io
sono tornato. Ho varcato l’ingresso e mi guardo attorno. È il vecchio casale di
mio padre. La pozzanghera al centro. Attrezzi vecchi, inutilizzabili,
incastrati gli uni negli altri, bloccano il passaggio alla scala che va in
soffitta. Il gatto è appostato alla ringhiera. Un panno lacerato, un tempo
avvolto per gioco attorno a una stanga, si alza nel vento. Io sono arrivato.
Chi mi riceverà? Chi aspetta dietro la porta della cucina? Del fumo esce dal
camino, si sta preparando il caffè della cena. Ti è familiare, ti senti a
casa? Non lo so, sono molto insicuro. Casa di mio padre lo è di certo, ma freddi
stanno i singoli individui uno vicino all’altro, come se ciascuno si occupasse
degli affari suoi, che io in parte ho dimenticato, in parte non ho mai conosciuto.
A che cosa posso servire, che cosa sono per loro, e sia io anche il figlio del
padre, del vecchio coltivatore della terra. E non oso bussare alla porta, solo
in distanza sto in ascolto, solo in distanza sto in piedi in ascolto, non così
da poter essere sorpreso come uno che origlia. E siccome sto in ascolto in distanza, non riesco
a sentire nulla, sento solo un leggero ticchettio di orologio o forse credo
soltanto di sentirlo, proveniente dai giorni dell’infanzia. Che altro accade in
cucina, è il segreto di coloro che là siedono e lo serbano davanti a me. Quanto
più si indugia davanti alla porta, tanto più estranei si diventa. Come sarebbe
se adesso qualcuno aprisse la porta e mi chiedesse qualcosa. Non sarei allora
io stesso come uno che vuole serbare il suo segreto.” (Traduzione di Rita Mascialino)
Franz Kafka (1906), Alamy Stock Photo
La
complessa annotazione scritta da Kafka mette al primo inizio la cosa
importante: l’azione del ritornare a casa, espressa lapidariamente e specificata
subito dopo con il verbo durchschreiten, qui tradotto con varcare,
come anche con l’azione dell’essere arrivato, altrettanto lapidaria e solenne,
ritorno e arrivo enfatizzati nel testo tedesco dalla lapidarietà, dal punto che
impone dopo la sola azione del verbo una pausa e, nella traduzione qui proposta,
azioni enfatizzate attraverso l'esplicitazione del soggetto, non necessaria in
italiano. Le due frasi lapidarie implicano una, pur brevissima, pausa del respiro
nel protagonista, emozionato come nell’espressione linguistica di cui sopra pur
nel controllo sovrano – ma non insensibile – dello speciale reduce. Una parola
sulla commozione kafkiana. Si tratta di un sentimento tenuto a bada molto
razionalmente ed elegantemente in questo autore, nella fattispecie: quasi come
se l’uomo che tornasse a casa avesse un nodo alla gola pensando al proprio
ritorno, così da avere bisogno di una pausa nel respiro prima di proseguire. Ritorno
e arrivo che si snodano su binari simbolicamente multipli nella immaginifica
narrazione kafkiana. Sul binario concreto: si tratta della casa del padre riconosciuta
come tale dal figlio e cui allude il fumo della preparazione del caffè del dopo
cena – ma già qui il fumo, in tale contesto, è anche un segno della distruzione
–, una casa in cui il figlio non sa se sentirsi in famiglia pur essendo appunto
il figlio. La scala che porta alla soffitta – e che è ancora disponibile per
Odradek-Kafka nel racconto La preoccupazione del padre di famiglia –,
nel ritorno del figlio, è sbarrata dai rottami accumulati come se ci fosse stata
una tempesta. Ma la casa kafkiana è sempre duplice. Al binario metaforico allude
la presenza del panno ora senza stanga e lacerato, buttato via assieme alle
cose abbandonate, comunque riconosciuto come oggetto un tempo munito di stanga,
se anche già solo per gioco, comunque ad evocazione di un vessillo, già
dall’infanzia comunque non una cosa seriamente intesa dai grandi, dal padre che
ha permesso il gioco ai piccoli con un simbolo tanto importante come verosimilmente l’appartenenza al proprio
popolo e così la sua riduzione a straccio inutilizzabile, dimenticato tra le
cose da buttare via. Commovente è il fatto che tale simbolo implicitamente
dell’esistenza degli ebrei come popolo – e dell’umanità stessa come vedremo
subito –, pur se lacerato e già ridicolizzato come cosa da giochi infantili,
alzi ancora i suoi resti al vento, come in un’azione di resistenza da parte di chi
non voglia essere cancellato per sempre, come in una rappresentazione
dell’identità e della dignità del popolo cui si riferisce, capace di alzarsi
ancora, ad oltranza, anche se semi distrutto e scacciato da ogni luogo, senza
casa – così nel polisemico testo kafkiano. Davvero in Kafka l’appartenenza al
suo popolo e all’umanità stessa è qualcosa di vissuto drammaticamente e
profondamente, qualcosa di incessantemente doloroso. In una breve digressione
ritenuta opportuna: sappiamo che Kafka verso la fine dei suoi giorni rifiutò la
lingua tedesca, la sua lingua madre cui diede profondità insuperate e
prevedibilmente insuperabili, adducendo quale causa del rifiuto:
l’individuazione in essa, molto profeticamente, del germe della violenza, ciò
per cui avrebbe intrapreso, se avesse ancora potuto, il viaggio in Palestina, dove
avrebbe voluto servire il suo popolo, come ebbe a scrivere egli stesso.
Tornando al racconto, ad un certo punto Kafka si riferisce ai familiari
utilizzando il termine Stück, pezzo, vocabolo che è idoneo nella
quasi totalità dei casi a designare oggetti inanimati. Solo in un caso si può
riferire a persone, considerate tuttavia con ironia o con deprezzamento – vedi
genere neutro del vocabolo e del pronome jedes ad esso riferito,
deprezzamento di cui è la semantica nel racconto. E certo non si può pensare –
tranne stando fuori dalla logica – che gli oggetti abbiano faccende di cui
occuparsi e che il protagonista non abbia mai conosciuto queste faccende, come
risulta da traduzioni della libera interpretazione. In italiano il vocabolo pezzo
non si adopera mai per le persone, per cui è stato scelto nella traduzione di
cui sopra il termine individui, qui pure con sfumatura poco positiva, e
si è aggiunta la comparazione con oggetti per specificare al meglio il
significato insito nel termine Stück come appunto del pronome di
riferimento jedes neutro, riduttivo nel contesto come genere attribuito
a persone.
Proseguendo,
sulla scia della casa del padre concreto e della bandiera abbandonata nei
rottami, si apre nell’eco anche un terzo binario più universale riguardante il
ritorno, l’arrivo della vita al punto di partenza come percorso esistenziale
che ritorna là, da dove è partito, ossia il ritorno al padre dell’umanità, che
come vedremo subito, non esiste altro che in credenze fallaci, di un’umanità infantile.
A conferma, un’osservazione sul termine Landwirt, composto con Land,
terra, paese, sopra tradotto con coltivatore della terra. Un termine, Land,
che si addice al binario concreto nel senso di appezzamento di terra e anche a
quello simbolico di terra come luogo in cui vive l’umanità, per altro un
termine che compare spesso nella narrazione kafkiana, anche ad esempio nel
anche nel famoso racconto Vor dem Gesetz, Davanti alla Legge, per
qualificare l’uomo che si presenta appunto davanti alla Legge per essere
accolto in essa, ossia ein Mann vom Lande, un uomo di campagna, nella
metafora un uomo che proviene dalla Terra, spostandosi in tal modo l’ambito da
quello terreno a quello metafisico. Così anche qui il vecchio coltivatore della
terra è il padre concreto, agricoltore, ma anche il padre nel più ampio spazio
della Terra, il proprietario o padrone metafisico – ricordiamo che nel racconto
biblico il padre universale è il creatore della Terra, per così dire il
proprietario terriero, sempre permanendo nel livello plurisimbolico del
racconto, dell’opera kafkiana.
Specifichiamo
meglio questo speciale ritorno kafkiano nel racconto supersimbolico. Nessun
padre c’è mai stato per Kafka, ossia il padre concreto non è, secondo il
figlio, mai stato un padre per lui e non ne ha mai aspettato il ritorno come quello
di uno di famiglia – l’ingresso è reso difficile dai rottami sparsi. Parallelamente
il padre per così dire celeste c’era all’inizio della vita, ma solo nelle
credenze di un’infanzia concreta e metaforica, per cui nessuno, non solo Kafka,
può ritornare da qualche parte, da qualcuno, se non c’è niente e nessuno ad
attenderlo, ad accoglierlo. Di fatto solo il ticchettio dell’orologio si fa
sentire nell’ambito concreto e più universale, ticchettio dell’orologio che
presenta il tempo impersonale che scorre per l’esistenza associato molto in
lontananza alla duplice età infantile, come possibili illusioni dei piccoli in
padri provvidi e dell’umanità bambina, ancora fiduciosa in padri celesti. Ribadendo:
il fatto che il ticchettio quasi impercettibile provenga da molto lontano o non
ci sia per niente – il tempo è muto per come vi allude Kafka con il fatto che
forse non vi sia neanche un ticchettio, ossia domini nella realtà delle cose
solo il nulla più muto –, non si riferisce nella polisemica narrazione kafkiana
solo all’infanzia del protagonista, dei bambini, ma coinvolge anche l’infanzia
dell’umanità, epoca in cui potevano sorgere e sussistere credenze e come
speranze vane. Al proposito, a conferma, Kafka non usa il possessivo
relativamente a suoi giorni dell’infanzia, non dice ‘aus meinen Kindertagen’,
ma solo ‘aus den Kindertagen’, espressione che si presta appunto al
meglio alla metafora, al simbolo universalmente esteso all’umanità. Non è senza
significato, in tale ambito simbolico, il fatto che il ritorno abbia luogo di
sera: nella sera della vita, quando sì è vicini alla notte, all’abbandono della
vita come, nell’intreccio di simboli, per Kafka stesso ormai anche concretamente
– sarebbe morto di lì a pochi anni. Kafka crede di sentire e vorrebbe sentire,
origliando senza assumere la tipica spazialità più o meno curva dell’origliatore,
qualcosa della vita della duplice casa, ma sente solo la voce del tempo che
scorre del tutto impersonale come ticchettio dell’orologio. Così in questa
brevissima narrazione Kafka presenta il nulla del suo ritorno alla casa
concreta del padre terreno e il nulla relativo a un eventuale implicito ritorno
al padre eterno che non attende chi a lui ritorni perché sta appunto solo come
antica credenza nell’infanzia dei bambini e dell’umanità intera, come segno del
potere sugli uomini, sui figli comunque nella fattispecie.
Di
fronte al nulla del duplice ritorno resiste tuttavia ancora nella mente più
recondita e nel cuore di Kafka, sempre secondo quanto sta nello straordinario
racconto, lo straccio di vessillo implicitamente ebraico – si è nel cortile
della casa paterna, ebraica, dove il padre non ha onorato la sua origine scegliendo
la cultura e la lingua tedesca, soprattutto per il figlio, e lasciando
l’ebraismo in piccole, insignificanti liturgie. Tale straccio di bandiera si
alza ancora al vento malgrado in pezzi e abbandonato fuori dalla casa, come una
proiezione, si potrebbe dire eroica, del Kafka ebreo, in pezzi, ma ancora
consapevole di essere un ebreo – per quanto errante – nella sua implacabile
ricerca di verità. In aggiunta, sempre sul piano più esteso della narrazione
come è stato qui individuato: anche l’umanità secondo Kafka risulta errante e
niente di più né di diverso.
Il
racconto termina con il segreto di coloro che siedono nella casa – sempre metaforicamente
duplice –, segreto che conservano davanti al figlio senza nulla aver mai rivelato
o chiarito in proposito, ma nel finale c’è anche il segreto che potrebbe avere
Kafka stesso e che conserverebbe, di cui quindi non si saprebbe niente, ma che
si può inferire dal contesto implicito della narrazione: il segreto relativo al
non illudersi sulla figura di padri incapaci di essere tali ed esistenti solo
come duplice volto di un potere assoluto, come inganno per la credulità degli
ingenui. Ancora un’osservazione sul plurale che compare relativo a coloro
che siedono in essa, allusione ai genitori e alla doppia paternità inesistente.
Il fatto che siedano evoca, sempre nel contesto, spazialità di un potere
assoluto, che non ascolta né da spiegazioni, ma che pretende sottomissione non interessandosi
altro che del proprio potere, come il protagonista ha ormai ben chiaro nella
sua disillusa e non lieta visione del mondo.
Per
concludere con una breve sintesi: Kafka, fuori dalla porta della casa del duplice
padre, si trova accomunato ai rottami buttati via nel cortile, fuori sì dalla
casa paterna senza un padre degno del ruolo e senza un padre celeste. Tuttavia
non è da solo, bensì si trova in compagnia del vessillo lacerato, che ha ancora
l’estrema dignità di alzarsi comunque per continuare ad esistere con la propria
indomita individualità anche se come logoro straccio *, così come ugualmente l’impossibile
reduce sta dritto, non curvo, non
piegato sebbene fuori dalla porta della polisemica casa cercando di ascoltare
se vi sia vita all’interno, appunto restando eretto, senza cedimenti, sentendo
null’altro che lo scorrere del tempo, ossia nulla. Sta non solo in qualità di
ebreo errante per eccellenza che, scacciato da tutti o non accettato da nessuno,
non può ritornare da nessuna parte perché è venuta a mancare l’illusoria duplice
meta, ma parallelamente nella qualità esistenziale di uomo senza possibilità di
tornare dai padri perché inesistenti come tali. Kafka sceglie dopo un’esistenza
di ostinati dubbi l’unica verità che gli resta incrollabile: quella che lo vede
resistere nella propria identità storica fatta di rifiuti e lacerazioni,
identità di appartenente alla sua cultura di origine, appartenenza che in Kafka
spazza via una volta per tutte il potere della paternità biologica proiettata
in quella divina sostituite dall’appartenenza culturale tutta terrena e solo
terrena, per precaria che essa sia, tuttavia l’unica capace di resistere
all’analisi ad oltranza di Kafka.
Così
termina l’analisi dell’annotazione senza titolo di Kafka, ulteriori tanti
dettagli sono stati tralasciati per non appesantire troppo la lettura
dell’analisi, avendo trattato comunque ciò che schiude la semantica di
superficie e profonda della narrazione kafkiana.
__________________
*Nel racconto Das
Urteil Kafka dà una descrizione del suo amico – in realtà il suo doppio
(Mascialino 1997: Franz Kafka-Racconti scelti-Traduzioni testo a
fronte e analisi: Campanotto Editore: 32-33: Collana Le carte tedesche:
Postfazione di Giorgio Cusatelli: Prefazione dell’autrice) – che anticipa nell’elaborazione
spaziale il reduce che sta con i rottami in Heimkehr: ‘(…) An
der Türe des leeren, ausgeraubten Geschäftes sah er ihn. Zwischen den Trümmern der Regale,
den zerfetzen Waren, den fallenden Gasarmen stand er gerade noch (…)’, ‘Sulla porta del vuoto e
saccheggiato negozio lo vedeva. Tra le macerie degli scaffali, le merci
stracciate, i bracci cadenti dei lumi a gas, stava ancora dritto in piedi (…)’.
Il racconto presenta il tema dell’ebraismo, al centro della visione del mondo
di Kafka, attraverso l’amico del protagonista, come anticipato il suo doppio,
ma ancora il figlio vive con il padre e parla con lui, non sta fuori dalla
porta – l’amico sta sulla porta anch’esso, né dentro né fuori dal negozio in
rovina come le merci, i tessuti lacerati mostrano. Nell’evoluzione della kafkiana
visione del mondo, in Heimkehr la decisione è ormai presa, nessun
discorso è più possibile, nessun inganno, resta solo l’appartenenza culturale,
che non è quella tedesca in cui è vissuto tanto profondamente, ma quella
ebraica. En passant: il titolo del racconto Il giudizio, come nella
traduzione di R. Mascialino nel testo citato, è diverso dai vari titoli
esistenti, i quali in ogni caso non corrispondono al significato del termine
tedesco, ma sono frutto della libera interpretazione, come viene spiegato nell’analisi
dei titoli contenuta.
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