Rita Mascialino, "Dal 'Passero solitario' di Giacomo Leopardi: riflessioni"
La
personalità degli umani, al di là della sua superficie nella prospettiva sociale,
di convenienze e convenzioni, è quanto mai complessa se solo si procede anche
di poco oltre il suo sembiante per così dire prima facie. Lo sviluppo
del linguaggio con il labirinto di connessioni semantiche tra i cervelli muti e
quello parlante, con gli scambi imprescindibili tra l’inconscio e il conscio – nella
misura in cui quest’ultimo sia realmente tale – sta alla base della complessità
ineguagliabile dell’identità di Homo sapiens. E in tale ambito una delle
identità più interessanti è quella espressa nella fantasia, nell’arte, in
special modo poetica, nella quale la fisionomia umana acquista tratti anche
molto astratti per prendere un concetto mutuato dalle arti visive, pertanto
spesso molto criptici. Facciamo un esempio con un paio di citazioni dal grande
Giacomo Leopardi poeta e interprete.
Verranno
illustrate alcune scelte lessicali operate da Leopardi nel contesto dei
versi, ossia in pieno rispetto della semantica degli stessi.
(Immagine: )
Dal
Passero solitario (L. Felici a cura di, Leopardi – Canti.
Roma RM: Newton Compton editori s.r.l.: 1974: Edizione integrale)
‘D’in su la vetta
della torre antica,
passero solitario, a
la campagna
cantando vai finché
non more il giorno;
ed erra l’armonia per
questa valle (…)’
La
proiezione di sé da parte di Leopardi nel passero è di immediata acquisizione e
tutti gli scolari italiani ne vengono a conoscenza molto presto. Il solingo
augellin del verso 45 si presenta subito all’inizio della composizione con fondamentali connotazioni del suo essere: canta
in perfetta solitudine spargendo armonia su tutta la valle. Premetto alla
spigolatura semantica una riflessione su un’affermazione di Leopardi nello Zibaldone
(Trevi, Dondero, Marra a cura di: 1997), visto che è citata nella nota N. 1
(Felici 1974) a commento del primo verso del Canto. Viene qui riportata
pertanto la citazione dallo Zibaldone numerata al 1789 (390): “Le parole lontano,
antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee
vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse”. Occorre rilevare per primo
che tale commento leopardiano riguarda non il Passero solitario, bensì
una stanza dell’Ariosto, per cui la diversità totale dei contesti non
permetterebbe alcuna comparazione – tra l’altro l’aggettivo lontano,
nello specifico contesto dei primi quattro versi il quale termina con un punto,
non compare nel Passero, ossia non c’entra con il Canto in questione e
l’averlo citato per spiegare la presenza dell’aggettivo antica riferito
alla torre nel Passero non ha alcun senso in ogni caso. Non solo, per chiarire
ancora il motivo per cui non si tengono in considerazione in generale i commenti
forniti in seno al metodo esegetico delle
comparazioni tra autori e testi diversi segue un ulteriore esempio: il
complemento finché non more il giorno del terzo verso viene addirittura comparato
a che paia il giorno pianger che si more di Dante (Divina Commedia,
Purgatorio VIII: 1-2), il quale verso si riferisce al suono della campana dell’Ave
Maria serale, ciò che di nuovo non c’entra niente con il contesto leopardiano
dove non sta nessuna squilla della sera anche se la torre può essere quella del
campanile. Tralasceremo pertanto ulteriori cosiddette derivazioni da altri
poeti in quanto non congruenti semanticamente con il testo e solo rilevate per
l’uso di un aggettivo e di qualche termine isolati arbitrariamente dai contesti
in cui si trovano, nonché aggiungendo invenzioni interpretative extra testo
originale. Una precisazione, molto ovvia, in merito: i termini scelti dagli
autori sono quasi sempre di uso molto comune, come non può essere diversamente,
e i paragoni in base a termini isolati dal contesto semantico sono inevitabilmente
e come minimo irrilevanti.
Dopo
la premessa, veniamo alla semantica del primo verso del Canto di cui in questa
spigolatura. Subito nel primo verso il paesaggio descritto si presenta come la
vetta di una torre antica. Una vetta: il passero canta dalla cima più alta del
luogo, ossia sta superiormente a tutti quanti abitano in basso la valle e non
possono volare alto, bensì devono stare solo al suolo. Vetta che è anche
antica. Ora questo aggettivo non è impiegato da Leopardi perché è piacevole,
come sopra – non è assolutamente detto che i poeti siano sempre anche
eccellenti interpreti di altri poeti o di se stessi. Tale aggettivo ha un
senso, magari restato inconscio all’autore, comunque un senso preciso: la torre
è antica ed è lì che il passero-Leopardi ha per così dire il suo nido, la sua
casa. Una torre quale simbolo principe
di solitudine e di spazialità verticale, in altezza: antica in quanto ha una
lunga storia dietro di sé e in sé, la storia della cultura – nel contesto il
passero leopardiano si inserisce in un filone poetico che non sorge sul
momento, in superficie o nel livello più basso possibile, la superficie, dove
stazionano i più, ma che sorge su un passato lunghissimo fatto di poeti cui spetta
il luogo più alto nell’arte. L’armonia del canto del passero e del poeta si
diffonde nella valle, termine che associa la valle concreta, ma anche, sebbene
remotamente, in una metonimia la già medioevale valle di lacrime quale simbolo
dell’umanità intera, ciò che sta in piena sintonia con il concetto della vita
in leopardi, consistente in pianto e dolore. L’armonia creata dall’arte, dalla
poesia come canto supremo quindi si sparge nella valle concreta e metaforica
dotata di rimandi alla sofferenza intrinseca all’esistere, un’armonia creata
dal canto del passero leopardiano, dall’arte precipuamente poetica, non dagli abitanti che ne usufruiscono per come possono, vivendo a terra, nell’abbassamento
che forma la conca della valle.
Veniamo
adesso alla seconda spigolatura semantica:
‘(…) e intanto il
guardo
steso nell’aria
aprica
mi fere il Sol che
tra lontani monti,
dopo il giorno
sereno,
cadendo si dilegua
(…)’
In
questi cinque versi compare l’aggettivo lontani riferito non ad Ariosto –
e possibilmente a chissà a quanti altri contesti –, bensì ai monti dietro i
quali, metaforicamente, il Sole cade dileguandosi, perdendo la propria
consistenza nella caduta, come disfacendosi, più esattamente liquefacendosi nel
mare infinito dell’orizzonte ultimo così caro a Leopardi. A parte la bellezza
anch’essa infinita del pezzo citato, ci occupiamo del termine steso,
participio passato di stendere. Per il proprio sguardo leopardi ha avuto
a disposizione la scelta fra stendere e tendere, che hanno per
altro in parte una sovrapposizione sinonimica nell’uso comune: lo sguardo
poteva benissimo essere teso nell’aria, non solo steso. Ovviamente, analizzando
la semantica dei due possibili verbi nel contesto, sarebbe cambiata l’immagine
e con essa il significato per come si è formato nella mente del poeta. Uno
sguardo teso nell’aria verso il Sole, la cui luce è fatta di irraggiamento, di
raggi, sopporta in posizione di forza e di tensione la metaforica ed erotica ferita di tali
raggi obliqui del Sole, più dolci che al mezzodì. Ma Leopardi ha scartato –
consciamente o inconsciamente non conta per l’identificazione del verace
significato emerso ed espresso nei termini – la postura metaforicamente energica del suo sguardo e ha
preferito la spazialità propria di stendere. Il suo sguardo si
stende dunque femminilmente e accoglie i maschili raggi del sole quando non sono
perpendicolari, quando sono meno violenti, al tramonto dove cadono obliqui,
questo in un’espressione di erotismo caratterizzato da una dolcezza sconvolgente
al punto che lo sguardo perde la sua tensione travolto dall’incontro con i
raggi maschili in un amplesso di cui la mente di un grande Leopardi ha potuto
godere nella sua ipersensibilità: i raggi feriscono non con violenza, ma attraverso
il loro dolcissimo effetto, si tratta di una ferita, stando alla semantica del
termine steso nel contesto, del più femminile godimento dovuto all’incontro con un maschile che
si è privato della violenza ad esso connessa. Un dolore certo, pur sempre capace
di fare male come dall’uso del verbo ferire, ma nel più acuto piacere dovuto
all’accettazione della ferita. Nel commento riportato nella Nota N. 40 (Felici 1974) steso
viene spiegato con che spazia, con cui viene spazzato via l’effetto
emozionale più viscerale espresso nell’immagine, ossia il suo significato. Non
solo lo sguardo di Leopardi si stende per accogliere i raggi del Sole, anche il
Sole, l’elemento maschile e potente per eccellenza, perde, come accennato, la
sua energia più infuocata per dissolversi in parte femmineamente nell’abbraccio
più sconvolgente con lo sguardo leopardiano, pure maschile, ma fattosi in parte
femmineo nell’accoglienza. Una brevissima nota linguistica: sole che nella
lingua italiana è di genere maschile, mentre ad esempio in tedesco è femminile:
più potente alla latitudine meridionale, più debole in quella nordica.
Un
pezzo straordinario dell’erotismo leopardiano espresso nella speciale
musicalità di molti suoi versi, qui straordinario per il gioco delle spazialità
del femminile e del maschile, di Sole e sguardo, che cadono entrambi in una irresistibile
corrispondenza per incontrarsi vicendevolmente in un eros la cui più profonda potenza
toglie le forze ad entrambi gli amanti per così dire: il Sole cade e si
dilegua, scompone i suoi raggi per così dire nella caduta, un po’ come se si
togliesse l’armatura, lo sguardo è steso di fronte a un tale amore, non regge
la connaturata postura tesa in un'unione sensualissima con la natura di un Sole come personificato assieme allo sguardo stesso. Questa interpretazione senza aggiungere, né togliere
alcunché ai versi, ma solo analizzando gli stessi nella loro semantica poetica,
artistica.
Rita
Mascialino
Immagine: postproduzione fotografica di Marino Salvador, artista friulano, su fotografia di Raffaella Manzini, Photographer in Firenze.