sabato 17 luglio 2021

Rita Mascialino, "Mauro Corona: 'Nel muro' "

Il romanzo di Mauro Corona Nel muro (Milano MI: Mondadori Libri 2018: Mondadori Oscar Absolute 2019) presenta la vicenda di un uomo che vive nella montagna friulana, taciturno, isolato dal resto della società per via della forte chiusura di carattere in cui consiste una parte importante della sua tragedia esistenziale. La narrazione si svolge in prima persona, ciò che di per sé può produrre nel lettore l’impressione di una proiezione dell’autore nel suo personaggio. Il fatto che questo non abbia nome accentua tale impressione di identificazione tra io narrante e autore, quasi come in una particolare forma di preterizione, quando si voglia tacere il nome e lo si dica nel contempo, in questo caso vi si alluda nella prima persona e nel silenzio collegato ad una identità nascosta. In altri termini: un nome fittizio avrebbe allontanato, sebbene in ogni caso non del tutto, dall’impressione di una tale possibile proiezione. A prescindere dal fatto che nell’analisi di un’opera letteraria un riscontro tra narrazione e biografia dell’autore ha eventuale senso per una biografia psichica, non concreta, risalente dall’opera alla costituzione della speciale biografia, a parte ciò la mancanza di identità per così dire anagrafica apre anche lo scenario che può stare per una parte del genere maschile – così nel testo di Corona, in cui qui e là si afferma, quasi di soppiatto, che, come l’infelice montanaro che ammazzerebbe tutte le donne per invidia, la pensino anche molti altri uomini, ad esempio (33):

“(…) e come me ce ne sono milioni. Certamente non tutti gli uomini, ma tanti. All’apparenza si mostrano perfetti. Hanno mogli, figli, in pubblico sono educati, gentili. Insomma, uomini irreprensibili. Ma dentro covano il male e l’odio verso la donna (…)”



 

La plurimillenaria storia della relazione dell’uomo con la donna corrobora la validità di quanto affermato dal protagonista del romanzo come nella citazione di cui sopra. Diamo qualche cenno indicativo di tale storia a introduzione dell’analisi dei più importanti temi rappresentati nell’opera.

Citando una religione condivisa da molta umanità, è la donna la causa prima della cacciata dall’Eden del genere umano da parte della divinità maschile. È di fatto nella Genesi che Adamo dà la colpa della trasgressione alla moglie e Dio condanna Adamo perché ha ascoltato la voce della moglie che non avrebbe dovuto ascoltare. Al proposito segue anche qualche nome celebre tra gli altri numerosissimi che hanno teorizzato o sottolineato l’inferiorità mentale della donna rispetto all’uomo così rendendone indirettamente facile e quasi ovvio il maltrattamento, persino l’uccisione: se un oggetto non ha valore, lo si può rompere senza produrre danno. Per San Paolo ad esempio la donna deve tacere nelle riunioni perché sarebbe indecoroso che parlasse. Ma anche filosofi del calibro di Aristotele, diversamente dall’opinione di Socrate, considerano la donna un essere intellettualmente inferiore all’uomo e dal sesso simile a un organo maschile monco. Non va esente dal disprezzo della donna neanche Dante il quale, accanto alla poetica angelicazione della donna tipica del dolce stil novo, rivela a Cangrande della Scala (XIII Epistola) di avere scritto la Commedia nella lingua umile e volgare delle donnette o muliercule, ossia non si trattiene dall’offendere le donne per giustificare di avere adoperato l’italiano anziché il latino, lingua colta. Per venire più vicino a noi, che dire del grande Alessandro Manzoni, che irride nel suo romanzo con il massimo disprezzo la donna povera del popolo affamato durante la rivoluzione di Milano paragonando il suo aspetto comprensivo di un grembiule contenente farina ad una pentolaccia a due manici che si fonde con l’aspetto della donna gravida per come si mostra esteticamente. Già anche Darwin – chi scrive è una evoluzionista convinta, senza sconti fideistici – riteneva la donna un essere inferiore, sbagliando nella fattispecie l’applicazione della teoria che pure aveva ideato o sistemato tanto intelligentemente. Tra i cosiddetti scienziati c’è ancora Möbius che disquisisce in modo accanito sulla deficienza mentale della donna, anzi della femmina, ossia sulla stupidità della stessa che avrebbe il cervello come quello di un animale inferiore, o anche come Lombroso che considera la donna come una stolta e una totale incapace, un’immorale, immoralità che, data l’inferiorità mentale della donna, sarebbe condivisa anche dalla donna nel suo ruolo di madre, appunto secondo questo scienziato. Per venire a un artista, Segantini alias Segatini nel dipinto Le due madri (1889) presenta una giovane donna appisolata su una sedia in una stalla con un neonato in braccio accanto ad una mucca stesa sulla paglia con il vitellino vicino e nel dipinto Vacche aggiogate (1888) che ottenne diverse medaglie d’oro e dove ci sono due – per usare il termine  scelto dall’artista – vacche aggiogate, di cui una in ombra e in secondo piano così che quasi non si vede, mentre è data ampia evidenza in primo piano ad una sola vacca e ad una donna piegata in posizione similquadrupede, così che di primo acchito le due vacche sembrano essere non le due vacche, ma la vacca e la donna. Freud stesso giudica la donna un essere castrato che invidia il pene. Giorgio Bassani ad esempio, tra l’altro, osa paragonare la donna madre a una cagna bastarda e così via in una elencazione pressoché infinita sul disprezzo dell’uomo per la donna. Infine, per venire più direttamente al desiderio di uccidere le donne che tanta parte forma del romanzo di Corona, cito quale emblema il poeta romantico Robert Browning nel poemetto Porphyria’s Lover (1836), L’amante di Porfiria, un capolavoro dell’horror inglese. Nella poesia il protagonista uccide la bellissima donna dallo sguardo che viene connotato come un po’ arrogante, forse per la bellezza di cui è consapevole la donna o per l’eventuale nobile dinastia o per l’orgoglio di avere, come forse crede, conquistato l’uomo. La donna dunque ama l’uomo e questo la strangola per averne il totale controllo, non in un raptus per qualche motivo per quanto non accettabile in nessun caso, ma con calma, utilizzando i suoi stessi biondi e lunghissimi capelli, una delle sue armi erotiche, che il poeta definisce sempre yellow, gialli, togliendo loro così un po’ di bellezza, omicidio commesso mentre essa lo abbraccia fiduciosa e amorevole seduta sulle sue ginocchia. Tale uccisione lo rende felice e soddisfatto, con il silenzio di Dio – implicitamente quasi come se Dio stesso fosse d’accordo –, tanto che l’assassino, in aggiunta con una buona dose di necrofilia, tiene per tutta la notte nelle sue braccia con sinistro piacere il cadavere della donna che si suppone diventi progressivamente freddo, rigido. Ancora una nota: il nome femminile Porfiria, scelto ad hoc da Browning per la donna del suo poemetto, coincide con quello di una malattia o, più esattamente, di un insieme di patologie gravi capaci persino di causare la morte, conosciute già nel mondo dell’antichità greca, diversi secoli avanti Cristo. Certo Browning, dichiaratamente, era un sostenitore delle donne e avrebbe, forse o in apparenza, scritto la poesia per denunciare – in verità molto nascostamente – quanto ci fosse di negativo o dovesse mutare nel rapporto uomo-donna, ma, come dichiara la scrivente in un proprio Aforisma: “Non esiste alibi che tenga nell’arte”, la quale esprime in ogni caso e sempre, anche quando l’artista abbia voluto dire altro o creda di aver detto altro o abbia voluto mentire, la verità ultima di questo e del genere umano, pescando essa nei significati dell’immaginazione inconscia, spesso in gran parte ignoti agli autori, più che in quella conscia relativa alle intenzioni e alle credenze consapevoli degli stessi. Per concludere la breve premessa, in ogni caso in questa analisi non saranno interessanti gli eventi biografici dell’autore o sue proiezioni o altro di simile, starà al centro invece il testo di Mauro Corona.

Venendo ora più direttamente al romanzo di Corona, è comprensibile che la prospettiva aperta dal protagonista su se stesso e su non pochi maschi in generale – non tutti ovviamente – possa non piacere qualora si resti ancorati ad una lettura superficiale, a propri pregiudizi. Più in profondità le cose cambiano come vedremo.

In questo romanzo sono espresse diverse rilevanti tematiche culturali e sociali, psicologiche, delle  quali verranno presentate quelle principali tralasciando altre tematiche pure importanti, ma non così fondamentali: la mentalità avversa alla donna da parte di una certa parte di uomini; la presentazione, senza veli o giustificazioni di sorta, della disgrazia – o della maledizione come anche la definisce spesso l’autore – di essere maschi che non sopportano le donne di cui invidiano addirittura la bellezza; la volontà di approfondire le cause consce e inconsce, ascrivibili all’influsso dell’ambiente familiare e alla eredità genetica, a monte dell’odio verso le donne; l’importanza degli affetti per dare senso alla vita; qualche tratto fondamentale della personalità delle donne; il ruolo dell’arte come catarsi.

Molti personaggi nel romanzo, compreso e in primo luogo il protagonista, odiano le donne precipuamente senza averne un motivo anche solo minimamente valido tranne l’invidia di quella che credono essere la maggiore forza del femminile verso la vita e appunto della bellezza, tanto è vero che alcuni distruggono la bellezza delle donne ferendole, rovinandole con l’acido solforico, con altri mezzi. Il protagonista stesso, un artista, uno scultore, intaglia donne nel legno, belle, che poi sfigura con l’ascia e imbratta con la vernice rosso sangue in un metaforico assassinio e per togliere loro la bellezza che pure ha rappresentato nelle sue opere e che non accetta di dover riconoscere alle stesse, quasi l’accettarla fosse una sottomissione verso la donna, un po’ come per far pagare alle donne di essere belle più dei maschi. Come si evince dal romanzo, in questo modo tali uomini si precludono le relazioni affettive più consuete che si incentrano sulla formazione di una famiglia con una compagna, con figli che nascono e crescono grazie all’amore tra i genitori e dei genitori verso di loro. In tale assenza di amore sostituito dall’odio la vita di questi maschi imbarbariti diventa un inferno non solo per sé, ma anche per gli altri, sfociando in un vero e proprio problema sociale. Certo, l’autore ben evidenzia nel suo romanzo come a monte dei maschi – si adopera qui prevalentemente il termine maschio perché il termine uomo comprende anche il genere femminile, ciò che potrebbe generare qualche confusione – che usano la violenza e uccidono i più deboli o le più deboli ci sia sempre una famiglia altrettanto mal riuscita, un’educazione a rovescio come si vede all’ingrandimento nei serial killer e nel serial del romanzo, Galvano dei Galvan, membro della terribile stirpe montana dei Galvan. Attraverso l’appartenenza alla genìa del bisavolo odiatore delle donne e loro assassino, anche della figlia stessa, il protagonista della vicenda, esso stesso serial per quanto solo immaginario, ascrive la colpa del suo odio per le donne non più solo all’educazione ricevuta dal padre e all’abbandono da parte della madre, ma anche all’eredità   genetica, così dando le coordinate generali per la propria personale colpevolezza nell’ambito. L’uomo cerca comunque di evitare un destino tanto avverso, entro il quale vivere la sua esistenza, con la ricerca ostinata di una via di uscita messa in atto inconsciamente e consciamente dal personaggio di Corona, il quale per un certo tempo riesce anche a sperimentare una sorta di amore per una donna, alquanto speciale a dire il vero, come vedremo nel corso di questa analisi, senza tuttavia giungere ad un superamento efficace della maledizione in questione, la quale resta attiva nel profondo della personalità del protagonista. Tuttavia la consapevolizzazione di alcuni motivi – di ordine familiare e genetico – a monte dell’odio in questione sottrae assieme all’aiuto dell’arte della scultura parte della potenzialità negativa intrinseca alle spinte psicologiche più devastanti, sebbene appunto non risani del tutto la personalità del protagonista che per questo spera con la propria morte che ritiene vicina di porre fine alla maledizione. Un protagonista che è dedito all’alcol e all’assunzione di una droga dal duplice nome Atropa Belladonna, erba che sembra portare in sé la disgrazia dello stesso: la bellezza della donna e il veleno – la morte come dalla parca Atropo – ad essa connesso, nel romanzo si capisce, erba che tra l’alto produce allucinazioni al personaggio che dà così al suo inferno interiore l’aspetto per così dire della donna.

A proposito dell’insopportazione verso la donna nella visione del mondo del protagonista con la conseguenza più ovvia degli affetti non realizzati o non realizzabili, sta la presenza di una cerva che segue l’uomo dappertutto, amata da questo quasi come una donna – come una sposa mite e fedele  (243) ridotta a livello di animale inferiore (131):

 

“(…) A volte mi veniva di abbracciarla con lo slancio di un uomo che stringe l’innamorata. Io non sono normale e la cerva non era una donna. Era molto meglio di una donna. Dovevo rispettarla. Esprimevo il mio affetto con qualche carezza (…)”

 

Certo gli animali danno agli umani quell’affetto incondizionato che nessun essere umano è in grado di dare nella stessa misura e modalità, tuttavia la citazione dello slancio maschile e dell’innamorata rende piuttosto inquietante la figura della cerva al di là della prima parvenza. Si tratta in ogni caso di un animale che sostituisce in linea di massima la donna nella vita del montanaro dal punto di vista affettivo, una metafora che sta per un femminile muto – pare in una certa sintonia con i dettami di San Paolo –, una donna muta e fedele, divenuta animale senza parola, una presenza spaventosa se recepita nel più profondo messaggio di cui è portatrice. Nella stagione degli amori l’uomo imbraccia il fucile per uccidere i cervi che vorrebbero la sua bella cerva, tuttavia non lo adopera in quanto non si sente di togliere di mezzo i rivali che hanno anch’essi il loro diritto all’amore. Accanto a ciò il personaggio evidenzia un forte tasso di necrofilia verso le donne: maneggia costantemente e senza particolare orrore tre vecchie mummie ingiallite di donne uccise in un lontano passato e rinvenute durante i lavori di restauro nell’intercapedine di un muro, appunto Nel muro, di una vecchia e cadente baita che ha acquistato per andare ad abitare nelle solitudini montane. Tre mummie che in numerosi incubi del montanaro dormiente sonni agitati lo montano mentre lui passivamente accetta e non riesce a ribellarsi. Per chiarire: nell’incubo o nel sogno ha comunque rapporti sessuali con tre donne morte, anzi addirittura orrendamente mummificate, che lo possiedono per così dire maschilmente, fatto questo in cui una verità inconscia del protagonista a monte dell’odio per le donne viene ad espressione: la paura e nel contempo il desiderio di essere femminilmente sottomesso al femminile, desiderio contrastato, ma inconsciamente attivo. Da tale orrore lo salva in qualche misura il citato affetto della cerva, di un femminile, va ribadito, comunque privo dell’uso della parola e completamente sottomesso. Aggiungendo una brevissima nota relativa a un tipo di assonanza linguistica, in italiano: cerva-serva, assonanza presente nelle associazioni inconsce del personaggio, se non anche in quelle consce. La cerva dunque è la compagna più sincera del montanaro, colei che non lascia mai l’uomo che non ha amici tranne lei e   e un vermiciattolo scoperto in una foiba dove l’uomo vorrebbe andare a morire.

La volontà del protagonista dunque di restaurare la vecchia baita di montagna appartenuta, per quanto ne sa al momento dell’acquisto, a sconosciuti e che diventerà la sua casa più abituale si presenta piuttosto chiaramente come un tentativo di restaurare la propria personalità in rovina – la casa è, tra l’altro, un simbolo classico della personalità umana. Essa è descritta nel primo capitolo del romanzo, primo piano che evidenzia la sua speciale importanza nella vicenda narrata. L’uomo, spinto da una forza inconscia, vuole rendere abitabile tale vecchia casa precaria e inospitale, ormai un rudere buono per i corvi e il pivasòn, l’uccello della morte che con il suo lungo becco succhia il sangue dei ciuffolotti non solo per nutrirsi, ma anche per il piacere di uccidere – così disse il padre del protagonista –, l’uccello che secondo la superstizione popolare non si deve mai guardare in quanto chi lo guardasse morirebbe entro breve tempo. Una baita non per vivere, ma per morire, come dichiara lo stesso protagonista. Nella baita l’uomo inizia il restauro sfondando il muro interno con il piccone, ossia sul piano metaforico: abbattendo l’ostacolo più resistente e andando coraggiosamente in profondità nella propria personalità, intercapedine dove si trova di fronte al suo problema più grosso, quello relativo a concrete donne morte ammazzate, diversamente dalle sue statue di donne mutilate a colpi di scure che ne sono un surrogato per così dire. Sulla pelle rinsecchita delle tre mummie ci sono strani segni che paiono di un idioma sconosciuto che il personaggio vorrà decifrare a tutti i costi, il linguaggio ignoto dell’inconscio che si è palesato nella sua forma non immediatamente comprensibile. Di fatto il romanzo consiste precipuamente nei tenaci tentativi del protagonista di capire tali messaggi incisi sui cadaveri delle tre donne, messaggi che si dischiudono alla fine della vicenda con il chiarimento di quanto possa stare alla base della personalità così inquietante dell’uomo, che risulta essere un serial killer mancato, ossia non realizzato pienamente, ma comunque tale nella personalità, come confessa il personaggio stesso. Il protagonista dunque porta avanti tale indagine consultando esperti di vario tipo, anche un pievano – il protagonista è anticlericale, non stima i preti, né crede nell’al di là –, i quali però non sanno in generale decifrare quei segni, ciò da cui emerge come sia l’individuo da solo a dover ricercare la propria verità senza aspettarsi l’aiuto di nessuno. Feroce è la presentazione dello psicologo che condivide con lui la volontà di uccidere le donne e che nel prosieguo del tempo passerà all’azione uccidendo realmente, non solo nel desiderio, cinque donne e venendo condannato con due ergastoli, uno psicologo che ha ancora più problemi di chi dovrebbe saper curare.

Diegeticamente la ricerca di decifrare i messaggi scritti sulle mummie – o nell’inconscio più nero – viene condotta dallo scrittore Corona con continui rimandi a successive fasi esplicative nel prosieguo dei capitoli, rimandi che appunto prorogando la soluzione riescono a tenere desta la suspense. Per chi è interessato solo o in primo luogo alla trama bruta delle opere letterarie, ossia per chi sta nella superficie della narrazione, ciò può risultare fastidioso, non così per chi voglia capire il significato del romanzo che, va tenuto presente, è un thriller psicologico, non un romanzo d’azione o di avventura. La lentezza nel procedere dei pochi eventi concreti rappresenta in realtà molto efficacemente la difficoltà insita nell’impresa di sondare e decifrare la muta vita interiore, dove sta la verità ultima dell’uomo. I segni scritti sulla pelle delle donne con un appuntito e tagliente becco di corvo quando ancora erano vive riveleranno soprattutto l’identità più profonda e verace del protagonista, i fatti occorsi e codificati nell’oscuro e misterioso linguaggio a monte della personalità. In altri termini: in questo thriller di Mauro Corona l’indagine è squisitamente psicologica, condotta dal protagonista che scava in se stesso, oggettivato in una baita cadente e restaurata proprio con lo sfondamento del muro, restauro che rende l’abitazione capace di resistere alle intemperie della montagna – alle intemperie della personalità del protagonista. Una narrazione che è godibile su due fronti, uno relativo ad una concreta storia, l’altro relativo a un viaggio ad oltranza nell’inconscio, un viaggio molto ben strutturato in una concatenazione di eventi che appaiono concreti.    

Il protagonista della vicenda, un intagliatore divenuto nel tempo ricco e famoso grazie alle sue inquietanti sculture lignee di donne, riesce ad un certo punto a instaurare, come anticipato, un rapporto positivo con una donna, che definisce la donna senz’ombra sulla scia di un’opera di Hugo von Hofmannsthal che viene citata nel romanzo. Si tratta tuttavia di una donna non del tutto reale in quanto appunto non proietta alcuna ombra, che proietterebbe se avesse un vero e proprio normale corpo. Se non un prodotto dell’immaginazione, senz’altro una donna non proprio tale per così dire. Lasciando stare qui qualsiasi raffronto con la fiaba di Hofmannsthal, con lei il protagonista è abbastanza sereno, sente in sé una buona disposizione per una donna. Il protagonista è anche un audace e abile  scalatore e porta la donna a scalare le montagne a lui tanto care ed essa si dimostra capace di seguirlo come un gatto (189). Le insegna anche a scolpire. Ma la donna senz’ombra, ossia senza corpo, metaforicamente quasi un doppio dell’uomo al femminile, abbandona poi l’uomo stesso per un altro uomo e lascia il solitario artista e arrampicatore nella disperazione (189): 

“(…) È mostruosa, feroce, unica, la determinazione di una donna che non ti vuole più. Cambia volto, espressione, occhi. Ti senti perduto, demolito, polverizzato, senza il minimo appiglio per tenerti a galla (…)”

Il narcisismo maschile del protagonista riceve un durissimo colpo, ma non si tratta solo di questo nel messaggio del romanzo. Il dolore acuto per l’abbandono si riferisce anche e forse soprattutto al fatto di dover vivere da solo, senza una compagna, senza una donna quale immagine materna, al di là della muta quanto fedele cerva o serva. Tale donna pare aver dato molto al protagonista nella cui interiorità ha fatto sbocciare una diversa conoscenza del femminile, un sentimento dell’amore come in una felice pausa di riposo o quasi riposo del consueto odio, ma l’abbandono tuttavia evita che cambi l’impostazione generale della sua personalità rispetto alla relazione con le donne, come a dimostrazione del fatto che i rapporti affettivi realmente utili agli esseri umani, quelli che danno senso alla vita, siano quelli positivi, ossia quelli che vanno a buon fine e dei quali l’uomo non ha avuto esperienza in precedenza. La donna è sì positiva, ma è appunto senza ombra, è un essere che ha molto dell’irreale, sembra quasi frammista alla fantasia dell’uomo, non è una donna alla fine troppo diversa dalle altre, abbandona il montanaro per un altro uomo che pare interessarla di più, è l’uomo che la interpreta diversamente dal solito, come in un tentativo di riappropriazione della madre, tentativo che non riesce perché anche questa donna lo lascia definitivamente come già la madre. Il positivo sta negli anni trascorsi con lei, accanto alla mamma perduta nell’infanzia – il restauro della baita ha dato i suoi frutti –, accanto a una mamma nuova che ripete sì il vecchio Leitmotiv dell’abbandono, ma in età adulta e ad avvenuto restauro. L’abbattimento del protagonista di fronte all’abbandono della donna evidenzia comunque nel romanzo come i sentimenti d’amore siano sempre leopardianamente assoluti, sorti per durare tutta la vita in una comunione di cuori, esperienza che appunto il protagonista non ha avuto che per un periodo e non del tutto compiutamente se si deve dare un senso alla mancanza dell’ombra – l’eventuale metafora per l’assenza di macchia non regge in quanto di per sé non cancella comunque la realtà dell’assenza di ombra, quindi la non perfetta realtà della persona permane, ciò che sottolinea come il recupero del femminile avvenga inevitabilmente solo in un cambio di ottica del protagonista, mentre i fatti si ripetono restando i medesimi nel loro schema generale.

Per quanto riguarda le donne presenti nel romanzo, esse non parlano quasi mai in prima persona in dialoghi, ossia prevale il silenzio delle stesse, in questo simili a chi non abbia diritto alla parola nel mondo del protagonista. Si tratta di esseri di cui emerge come, nella quasi totalità – le eccezioni sono costituite dalla madre del protagonista e dalla donna che gli fa da mamma per un certo tempo – siano disponibili a farsi vittime dei maschi sottovalutando la maggiore forza fisica degli stessi e la loro non  infinita pazienza che si manifesta nelle scariche violente sui più deboli, specialmente sulle donne in quanto parte debole della società. Queste donne spesso irridono molto stoltamente i maschi sentendosi ad essi superiori, superiorità che si basa tuttavia non sul possesso di intelligenza eventualmente superiore a quella in possesso dei maschi, bensì si basa semplicemente sul possesso dell'attrattiva sessuale che esercitano sugli stessi, un'attrattiva che non le rende in realtà superiori ai maschi in nessun modo, come viene messo in evidenza nel romanzo le donne vengono anche uccise per la loro sciocca irrisione del più forte. Queste donne, per come sono presentate nel romanzo, non capiscono per nulla, come già accennato,  la complessa personalità del maschio e la sua non infinita pazienza, non capiscono neanche come non sia cosa buona e saggia stuzzicare l'animale più forte e non sciocco, spesso intollerante verso le irrisioni da parte delle donne. Il terribile Galvan – come si apprende verso la fine del romanzo, l’assassino delle donne, tra cui la figlia stessa – afferma che le donne se la vanno a cercare la disgrazia con i maschi e questo sembra essere piuttosto vero in quanto esse non si accorgono di chi stia loro di fronte, un animale tanto più forte fisicamente di loro e  vedi la Porphyria di Browning – diverso da loro nell’impostazione verso la vita, nella visione del mondo, un animale che può far loro pagare il fio di una semplice presa in giro uccidendole con totale facilità, ossia tali donne sembrano mancare di qualsiasi vigilanza, di intelligenza. In ciò sta la grande debolezza delle donne per come viene mostrata ampiamente e oggettivamente nel romanzo a dispetto di quanto affermi esplicitamente qualche volta il protagonista che le ritiene più forti dei maschi perché dotate di attrattiva sul piano sessuale, attrattiva che possiedono essi stessi in ugual misura o quasi. 

Centrale risulta nel romanzo l’influsso dell’arte quale potente strumento di espressione della visione del mondo degli artisti, soprattutto inconscia, quale strumento di catarsi per l’artista e universalmente per l’Uomo interessato all’arte – le orride sculture del protagonista hanno successo, piacciono agli umani, che ne traggono pertanto beneficio nel profondo come espressione di verità che, chiuse nei circuiti muti della personalità, emergono avendo voce in varia misura e modalità, consentendo così la scarica liberatrice delle tensioni accumulate nella rimozione. 

Una finale nota fuori analisi sulla derivazione ereditaria geneticamente cui si rifà il protagonista per spiegare la propria bestialità interiore. Andando indietro nelle ere, spicca una caratteristica nei primati socialmente organizzati ad harem con il maschio dominante, che riporto con un aneddoto significativo. Un maschio aveva preso di mira una femmina senza averne un motivo plausibile qualsiasi, mentre tutti gli altri del branco stavano a guardare lo spettacolo. Ad un certo punto uno di essi, figlio di quella femmina, intervenne a difesa della stessa facendo smettere il massacro che di fatto finì, troppo tardi tuttavia in quanto la femmina morì poco dopo a causa delle ferite mortali subite. In una comparazione con l’attualità, questo maschio è l’esempio di come debbano essere i maschi ad agire essendo i più forti membri della società umana e detenendo il potere, ossia come debbano assumere essi l’iniziativa per prendere aperta posizione contro i maschi stessi, ossia come debbano essere essi a intervenire molto esplicitamente per fare smettere ai maschi il cosiddetto femminicidio come viene indecorosamente definita l’uccisione delle donne invece che con il termine più consono donnicidio, parallelo in qualche modo a omicidio.

Nel muro di Mauro Corona attua questo intervento maschile che denuncia il negativo di tanti maschi.  Il romanzo spezza una lancia, brandita da un uomo, da un maschio, contro la violenza sulla donna denudando il lato più oscuro di una parte del mondo maschile, ciò non tralasciando di evidenziare una certa mentalità diffusa nelle donne che non depone a loro vantaggio. Un'opera letteraria coraggiosa, in cui il protagonista, un uomo, non ha paura di rivelare i suoi lati negativi più segreti.

Per finire in bellezza l'analisi dell'importante romanzo Nel muro: la montagna friulana trova in Mauro Corona un vero e proprio cantore, che quasi sembra condividerne, per così dire, l'anima più profonda e più vera, come mostrano le sue descrizioni che non hanno nulla a che vedere con la presentazione della stessa come si ha a scopi turistici, la quale nasconde la verità di una tale natura che respira e ispira in realtà tristezza e spavento, simboleggiata emblematicamente nel romanzo dal pivasòn, il crudele uccello della morte che ne è l’abitante sovrano.

                                                                                                      Rita Mascialino

Immagine: Rita Mascialino in Postproduzione fotografica di Marino Salvador su Fotografia (2019) di Raffaella Manzini, Photographer in Firenze.


  

venerdì 9 luglio 2021

 

RECENSIONE C. SGORLON SU R. MASCIALINO

 

Lo scrittore CARLO SGORLON ha scritto di Rita Mascialino e delle sue analisi dei testi letterari: dalla Pagina Culturale Società & Cultura, GAZZETTINO (Mercoledì 21 marzo 2001), Ritratto d’Autore, titolo dell’ Articolo: MASCIALINO: LA METAFISICA DELLA CRITICA.
"(...) A me è venuta in mente l'immagine del geologo che scava lunghissime carote di ghiaccio nell'Antartide e, dagli strati della carota, ci sa poi dire mirabilia sulla storia geologica di quel continente (...)".
"(...) Fissata la sua zona di scavo, Rita si sprofonda in essa in modi sterminati, fino al limite del pensabile, facendo appello a ogni possibile risorsa semantica delle sue conoscenze linguistiche. Qui è il luogo dove la Mascialino mostra ogni sua valenza. Dove noi vediamo significati semantici del tutto normali, lei scorge caleidoscopi di suggestive possibilità (...)"
"(...) Quando noi siamo stanchi di seguirla e abbiamo il fiato grosso, lei continua ad addentrarsi imperterrita, dando segnali di avere appena incominciato a sondare la sua miniera (...)".
"(...) Le frasi scelte per l'indagine, le strofe, i versi di cui si serve Rita sono un po' il correlativo oggettivo del sacchetto di ossa, del pendolino, dei tarocchi, delle linee della mano usati dagli sciamani dell'Asia, dell'Africa o di casa nostra per ricostruire un mistero del passato (...)".
"(...) Così ha analizzato una strofa di un canto gitano di Lorca, una lirica della Dickinson, un racconto di Poe, una tesi di Lutero (in latino), una frase dei 'Promessi Sposi' o un periodo de 'Il trono di legno' dell'autore di questo articolo. Il suo metodo è applicabile anche alle arti figurative (...)".




 Fotografia: 'STUDIO FOTOGRAFICO VALENTINA VENIER' Via Grazzano 39 - Tel. 345 34 63 650




giovedì 8 luglio 2021


CHI SEI TU
Silloge poetica di Rita Mascialino (Cleup Editrice Università di Padova 2021)

POSTFAZIONE 


Come è ormai consuetudine nelle mie raccolte poetiche, analizzo tre poesie: Chi sei tu che introduce la silloge di settantuno composizioni, Uomo di immagini al suo centro, Lacrime che la chiude. Ai lettori tutte le altre da interpretare nella solitudine della lettura, dell’introspezione, del sogno.

Copertina della silloge poetica Chi sei tu

Quale premessa alla poesia che dà il titolo alla silloge Chi sei tu è opportuno uno scorcio esegetico sull’affascinante immagine della copertina creata dall’artista friulano Marino Salvador, specificamente finalizzata a rappresentare un’angolazione del titolo di questa raccolta in una suggestiva sintesi e simbiosi poetica e artistica. Lo speciale ritratto appartiene a una serie di serigrafie di Marino Salvador, nella fattispecie postprodotte su uno scatto (2019) della fotografa Raffaela Manzini, Firenze, relativo all’Autrice, nella Sede del Baglioni Hotel Santa Croce, Sala della Musica, Firenze, in occasione di alcune Interviste a scrittori e poeti. Si tratta di un’immagine che si aggiunge alle ulteriori icone pop dell’artista con una novità: i cenni identitari sono del tutto celati dietro un drappo bianco come un raffinato pizzo o rete e solo dominano gli occhi sul fondo scuro. Il pizzo come estetico ornamento femminile, la rete come imbrigliamento dell’identità di superficie per lasciare spazio a quella profonda dello spirito che traluce solo dai lampi degli occhi. Si tratta dunque di una amplificazione della natura degli occhi e dello sguardo per l’identificazione della personalità dell’individuo, che in questa immagine di Salvador è divenuta solo sguardo, gli occhi affioranti dalla marea spaventosa del nero più intenso di un infinito senza colori, senza vita, che appare come la loro misteriosa matrice.

Veniamo dunque alla poesia che dà il titolo alla silloge (5):

Chi sei tu
Chi sei tu
Che mi guardi
Dentro gli occhi
Così antico
Così nuovo
Mi respiro
Nelle spire
Del tuo spirito
Nella serpe
Dello sguardo
Nel tuo drago
Nel profondo
Che mi ammalia
Che mi stringe
Affiorante
Dall’abisso
Sconfinato
Da cui vieni
Chi sono io.

Ci troviamo di fronte a una persona, proiezione della poetessa, che si oggettiva sdoppiandosi per conoscere la propria identità più vera e più nascosta non quale essere in carne ed ossa, ma quale spirito che si manifesta nello sguardo magnetico degli occhi da cui si sente penetrata e ghermita come da una serpe che emerga dal più tenebroso abisso: la personalità degli umani ignota, inafferrabile nella sua natura e ben oltre la piccola identità data nel quotidiano, una personalità che ha oscure radici e origini nel più arcaico passato dell’Universo sterminato e senza vita. Dopo l’affondo nella propria oggettivazione, definita nella domanda Chi sei tu, la persona può chiedersi Chi sono io, perché è il suo più profondo sguardo che riflette e avvolge il suo Io quale serpe che si riconosce come portatrice del Sé. La presenza dell’immagine della serpe è collegabile alla più intensa energia, da sempre simboleggiata nel serpente, nel drago, metafore per l’inconscio più arcaico conservato nel cervello rettiliano così importante nell’uomo. Ma anche indica la pericolosità di avventurarsi nelle profondità della natura umana: dove stanno serpi e draghi, i luoghi non sono lietamente frequentabili, sono luoghi per esploratori ad oltranza. Una poesia relativa al tema dell’identità umana, al più misterioso senso della
vita stessa al di là di quanto di essi affiora alla superficie.

Passiamo a Uomo di immagini (41):

Uomo di immagini
Uomo di immagini
Crei e distruggi
Mondi
Di dei spaventosi
Di esseri arcani
Di luoghi sconosciuti
Di ciechi universi
Visioni
Baleni
Baratri e abissi
Dal buio della mente
Il sinistro tuo regno
Dove domina
Eremita
Il tuo volto
Più vero.

In questa poesia l’essere umano diviene immagine esso stesso che si presenta quale poeta e artista creatore e distruttore di mondi immaginifici, di immagini create dalla sua mente. L’uomo di immagini è signore dei suoi mondi psichici liberi dagli impedimenti della materia,consapevole del valore della sua creatività nell’Universo sconfinato. È di casa nell’oscurità del suo regno, dove domina da eremita, un regno in cui pochi si avventurano lasciandolo inesplorato, intimoriti dai suoi abissi più profondi e preferendogli il mondo di superficie della vita concreta, più lieto, meno inquietante, ma meno emozionante e più lontano dall’identità vera dell’uomo.

A conclusione della raccolta, Lacrime (72):

Lacrime
Lacrime
Vive sorgenti
Effluvi di sé
A lenire gli spasmi
Amore
Disperazione
Momento
Di pacificazione
Con il proprio passato
Ché sospenda
Di trafiggere
Spietato
Il costato
Agli occhi
La luce
Delle stelle
Al cuore
L’estasi del deliquio.

Un invito ad abbandonarsi ai sentimenti più lirici viventi entro l’interiorità di ciascuno, un invito a non rimuovere la sensibilità più fine. Così tali lacrime appaiono particolarmente catartiche, purificatrici, consentendo esse un momento di conciliazione con se stessi, con la vita e le sue vicissitudini. Nella commozione scaturente da uno sguardo su se stessi che si fa più umano, anche i rimorsi più atroci e più irrimediabili sospendono per un attimo eterno di incrudelire con la loro punta lancinante. Non è uno sguardo audace e indagatore come in Chi sei tu, non temerario e solipsistico come in Uomo di immagini, bensì è uno sguardo che resta nel raggio di una comprensione di sé data da un cuore tempestato da una sensibilità che non dà tregua e che si concede un attimo di inondazione d’amore. Un momento – non un perdono e una dimenticanza definitivi – di carità umana per se stessi, quella pietà verso se stessi che solo il proprio Io categorico giudicante può avere per un’esperienza di redenzione, nessun altro, a osservare e sentire la propria piccola collocazione nel grandioso quanto inafferrabile evento della propria vita nell’Universo.

                                                                                                    Rita Mascialino




Quarta di Copertina della silloge poetica Chi sei tu












 

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