Rita Mascialino, "Mauro Corona: 'Nel
muro' "
Il romanzo di Mauro Corona Nel muro (Milano MI: Mondadori Libri 2018: Mondadori Oscar Absolute 2019) presenta la vicenda di un uomo che vive nella montagna friulana, taciturno, isolato dal resto della società per via della forte chiusura di carattere in cui consiste una parte importante della sua tragedia esistenziale. La narrazione si svolge in prima persona, ciò che di per sé può produrre nel lettore l’impressione di una proiezione dell’autore nel suo personaggio. Il fatto che questo non abbia nome accentua tale impressione di identificazione tra io narrante e autore, quasi come in una particolare forma di preterizione, quando si voglia tacere il nome e lo si dica nel contempo, in questo caso vi si alluda nella prima persona e nel silenzio collegato ad una identità nascosta. In altri termini: un nome fittizio avrebbe allontanato, sebbene in ogni caso non del tutto, dall’impressione di una tale possibile proiezione. A prescindere dal fatto che nell’analisi di un’opera letteraria un riscontro tra narrazione e biografia dell’autore ha eventuale senso per una biografia psichica, non concreta, risalente dall’opera alla costituzione della speciale biografia, a parte ciò la mancanza di identità per così dire anagrafica apre anche lo scenario che può stare per una parte del genere maschile – così nel testo di Corona, in cui qui e là si afferma, quasi di soppiatto, che, come l’infelice montanaro che ammazzerebbe tutte le donne per invidia, la pensino anche molti altri uomini, ad esempio (33):
“(…) e come me ce ne sono milioni.
Certamente non tutti gli uomini, ma tanti. All’apparenza si mostrano perfetti.
Hanno mogli, figli, in pubblico sono educati, gentili. Insomma, uomini
irreprensibili. Ma dentro covano il male e l’odio verso la donna (…)”
La plurimillenaria
storia della relazione dell’uomo con la donna corrobora la validità di quanto
affermato dal protagonista del romanzo come nella citazione di cui sopra. Diamo
qualche cenno indicativo di tale storia a introduzione dell’analisi dei più
importanti temi rappresentati nell’opera.
Citando una
religione condivisa da molta umanità, è la donna la causa prima della cacciata
dall’Eden del genere umano da parte della divinità maschile. È di fatto nella
Genesi che Adamo dà la colpa della trasgressione alla moglie e Dio condanna
Adamo perché ha ascoltato la voce della moglie che non avrebbe dovuto
ascoltare. Al proposito segue anche qualche nome celebre tra gli altri
numerosissimi che hanno teorizzato o sottolineato l’inferiorità mentale della
donna rispetto all’uomo così rendendone indirettamente facile e quasi ovvio il
maltrattamento, persino l’uccisione: se un oggetto non ha valore, lo si può
rompere senza produrre danno. Per San Paolo ad esempio la donna deve tacere
nelle riunioni perché sarebbe indecoroso che parlasse. Ma anche filosofi del
calibro di Aristotele, diversamente dall’opinione di Socrate, considerano la
donna un essere intellettualmente inferiore all’uomo e dal sesso simile a un organo
maschile monco. Non va esente dal disprezzo della donna neanche Dante il quale,
accanto alla poetica angelicazione della donna tipica del dolce stil novo,
rivela a Cangrande della Scala (XIII Epistola) di avere scritto la Commedia nella
lingua umile e volgare delle donnette o muliercule, ossia non si
trattiene dall’offendere le donne per giustificare di avere adoperato
l’italiano anziché il latino, lingua colta. Per venire più vicino a noi, che
dire del grande Alessandro Manzoni, che irride nel suo romanzo con il massimo
disprezzo la donna povera del popolo affamato durante la rivoluzione di Milano
paragonando il suo aspetto comprensivo di un grembiule contenente farina ad una
pentolaccia a due manici che si fonde con l’aspetto della donna gravida per
come si mostra esteticamente. Già anche Darwin – chi scrive è una evoluzionista
convinta, senza sconti fideistici – riteneva la donna un essere inferiore,
sbagliando nella fattispecie l’applicazione della teoria che pure aveva ideato
o sistemato tanto intelligentemente. Tra i cosiddetti scienziati c’è ancora
Möbius che disquisisce in modo accanito sulla deficienza mentale della donna, anzi
della femmina, ossia sulla stupidità della stessa che avrebbe il cervello come
quello di un animale inferiore, o anche come Lombroso che considera la donna
come una stolta e una totale incapace, un’immorale, immoralità che, data
l’inferiorità mentale della donna, sarebbe condivisa anche dalla donna nel suo
ruolo di madre, appunto secondo questo scienziato. Per venire a un artista, Segantini
alias Segatini nel dipinto Le due madri (1889) presenta una giovane donna
appisolata su una sedia in una stalla con un neonato in braccio accanto ad una
mucca stesa sulla paglia con il vitellino vicino e nel dipinto Vacche
aggiogate (1888) che ottenne diverse medaglie d’oro e dove ci sono due – per
usare il termine scelto dall’artista – vacche
aggiogate, di cui una in ombra e in secondo piano così che quasi non si vede,
mentre è data ampia evidenza in primo piano ad una sola vacca e ad una donna
piegata in posizione similquadrupede, così che di primo acchito le due vacche
sembrano essere non le due vacche, ma la vacca e la donna. Freud stesso giudica
la donna un essere castrato che invidia il pene. Giorgio Bassani ad esempio, tra
l’altro, osa paragonare la donna madre a una cagna bastarda e così via in una
elencazione pressoché infinita sul disprezzo dell’uomo per la donna. Infine,
per venire più direttamente al desiderio di uccidere le donne che tanta parte
forma del romanzo di Corona, cito quale emblema il poeta romantico Robert
Browning nel poemetto Porphyria’s Lover (1836), L’amante di Porfiria,
un capolavoro dell’horror inglese. Nella poesia il protagonista uccide la bellissima
donna dallo sguardo che viene connotato come un po’ arrogante, forse per la
bellezza di cui è consapevole la donna o per l’eventuale nobile dinastia o per
l’orgoglio di avere, come forse crede, conquistato l’uomo. La donna dunque ama l’uomo
e questo la strangola per averne il totale controllo, non in un raptus per
qualche motivo per quanto non accettabile in nessun caso, ma con calma, utilizzando
i suoi stessi biondi e lunghissimi capelli, una delle sue armi erotiche, che il
poeta definisce sempre yellow, gialli, togliendo loro così un po’
di bellezza, omicidio commesso mentre essa lo abbraccia fiduciosa e amorevole
seduta sulle sue ginocchia. Tale uccisione lo rende felice e soddisfatto, con il
silenzio di Dio – implicitamente quasi come se Dio stesso fosse d’accordo –,
tanto che l’assassino, in aggiunta con una buona dose di necrofilia, tiene per
tutta la notte nelle sue braccia con sinistro piacere il cadavere della donna che
si suppone diventi progressivamente freddo, rigido. Ancora una nota: il nome
femminile Porfiria, scelto ad hoc da Browning per la donna del suo
poemetto, coincide con quello di una malattia o, più esattamente, di un insieme
di patologie gravi capaci persino di causare la morte, conosciute già nel mondo
dell’antichità greca, diversi secoli avanti Cristo. Certo Browning,
dichiaratamente, era un sostenitore delle donne e avrebbe, forse o in apparenza,
scritto la poesia per denunciare – in verità molto nascostamente – quanto ci
fosse di negativo o dovesse mutare nel rapporto uomo-donna, ma, come dichiara
la scrivente in un proprio Aforisma: “Non esiste alibi che tenga nell’arte”, la
quale esprime in ogni caso e sempre, anche quando l’artista abbia voluto dire altro
o creda di aver detto altro o abbia voluto mentire, la verità ultima di questo
e del genere umano, pescando essa nei significati dell’immaginazione inconscia,
spesso in gran parte ignoti agli autori, più che in quella conscia relativa
alle intenzioni e alle credenze consapevoli degli stessi. Per concludere la
breve premessa, in ogni caso in questa analisi non saranno interessanti gli
eventi biografici dell’autore o sue proiezioni o altro di simile, starà al
centro invece il testo di Mauro Corona.
Venendo ora più
direttamente al romanzo di Corona, è comprensibile che la prospettiva aperta dal
protagonista su se stesso e su non pochi maschi in generale – non tutti
ovviamente – possa non piacere qualora si resti ancorati ad una lettura
superficiale, a propri pregiudizi. Più in profondità le cose cambiano come
vedremo.
In questo romanzo
sono espresse diverse rilevanti tematiche culturali e sociali, psicologiche, delle
quali verranno presentate quelle
principali tralasciando altre tematiche pure importanti, ma non così
fondamentali: la mentalità avversa alla donna da parte di una certa parte di
uomini; la presentazione, senza veli o giustificazioni di sorta, della
disgrazia – o della maledizione come anche la definisce spesso l’autore – di
essere maschi che non sopportano le donne di cui invidiano addirittura la
bellezza; la volontà di approfondire le cause consce e inconsce, ascrivibili
all’influsso dell’ambiente familiare e alla eredità genetica, a monte dell’odio
verso le donne; l’importanza degli affetti per dare senso alla vita; qualche
tratto fondamentale della personalità delle donne; il ruolo dell’arte come
catarsi.
Molti personaggi
nel romanzo, compreso e in primo luogo il protagonista, odiano le donne
precipuamente senza averne un motivo anche solo minimamente valido tranne
l’invidia di quella che credono essere la maggiore forza del femminile verso la
vita e appunto della bellezza, tanto è vero che alcuni distruggono la bellezza
delle donne ferendole, rovinandole con l’acido solforico, con altri mezzi. Il
protagonista stesso, un artista, uno scultore, intaglia donne nel legno, belle,
che poi sfigura con l’ascia e imbratta con la vernice rosso sangue in un metaforico
assassinio e per togliere loro la bellezza che pure ha rappresentato nelle sue
opere e che non accetta di dover riconoscere alle stesse, quasi l’accettarla fosse
una sottomissione verso la donna, un po’ come per far pagare alle donne di
essere belle più dei maschi. Come si evince dal romanzo, in questo modo tali
uomini si precludono le relazioni affettive più consuete che si incentrano
sulla formazione di una famiglia con una compagna, con figli che nascono e
crescono grazie all’amore tra i genitori e dei genitori verso di loro. In tale
assenza di amore sostituito dall’odio la vita di questi maschi imbarbariti diventa
un inferno non solo per sé, ma anche per gli altri, sfociando in un vero e
proprio problema sociale. Certo, l’autore ben evidenzia nel suo romanzo come a
monte dei maschi – si adopera qui prevalentemente il termine maschio
perché il termine uomo comprende anche il genere femminile, ciò che
potrebbe generare qualche confusione – che usano la violenza e uccidono i più
deboli o le più deboli ci sia sempre una famiglia altrettanto mal riuscita,
un’educazione a rovescio come si vede all’ingrandimento nei serial killer e nel
serial del romanzo, Galvano dei Galvan, membro della terribile stirpe montana dei
Galvan. Attraverso l’appartenenza alla genìa del bisavolo odiatore delle donne
e loro assassino, anche della figlia stessa, il protagonista della vicenda, esso
stesso serial per quanto solo immaginario, ascrive la colpa del suo odio per le
donne non più solo all’educazione ricevuta dal padre e all’abbandono da parte
della madre, ma anche all’eredità genetica, così dando le coordinate generali per
la propria personale colpevolezza nell’ambito. L’uomo cerca comunque di evitare
un destino tanto avverso, entro il quale vivere la sua esistenza, con la
ricerca ostinata di una via di uscita messa in atto inconsciamente e
consciamente dal personaggio di Corona, il quale per un certo tempo riesce
anche a sperimentare una sorta di amore per una donna, alquanto speciale a dire
il vero, come vedremo nel corso di questa analisi, senza tuttavia giungere ad
un superamento efficace della maledizione in questione, la quale resta attiva nel
profondo della personalità del protagonista. Tuttavia la consapevolizzazione di
alcuni motivi – di ordine familiare e genetico – a monte dell’odio in questione
sottrae assieme all’aiuto dell’arte della scultura parte della potenzialità
negativa intrinseca alle spinte psicologiche più devastanti, sebbene appunto non
risani del tutto la personalità del protagonista che per questo spera con la propria
morte che ritiene vicina di porre fine alla maledizione. Un protagonista che è
dedito all’alcol e all’assunzione di una droga dal duplice nome Atropa
Belladonna, erba che sembra portare in sé la disgrazia dello stesso: la
bellezza della donna e il veleno – la morte come dalla parca Atropo – ad essa
connesso, nel romanzo si capisce, erba che tra l’alto produce allucinazioni al
personaggio che dà così al suo inferno interiore l’aspetto per così dire della
donna.
A proposito dell’insopportazione
verso la donna nella visione del mondo del protagonista con la conseguenza più
ovvia degli affetti non realizzati o non realizzabili, sta la presenza di una
cerva che segue l’uomo dappertutto, amata da questo quasi come una donna – come
una sposa mite e fedele (243) ridotta a
livello di animale inferiore (131):
“(…) A volte mi veniva di
abbracciarla con lo slancio di un uomo che stringe l’innamorata. Io non sono
normale e la cerva non era una donna. Era molto meglio di una donna. Dovevo
rispettarla. Esprimevo il mio affetto con qualche carezza (…)”
Certo gli animali
danno agli umani quell’affetto incondizionato che nessun essere umano è in
grado di dare nella stessa misura e modalità, tuttavia la citazione dello
slancio maschile e dell’innamorata rende piuttosto inquietante la figura della
cerva al di là della prima parvenza. Si tratta in ogni caso di un animale che sostituisce
in linea di massima la donna nella vita del montanaro dal punto di vista
affettivo, una metafora che sta per un femminile muto – pare in una certa sintonia
con i dettami di San Paolo –, una donna muta e fedele, divenuta animale senza
parola, una presenza spaventosa se recepita nel più profondo messaggio di cui è
portatrice. Nella stagione degli amori l’uomo imbraccia il fucile per uccidere
i cervi che vorrebbero la sua bella cerva, tuttavia non lo adopera in quanto
non si sente di togliere di mezzo i rivali che hanno anch’essi il loro diritto
all’amore. Accanto a ciò il personaggio evidenzia un forte tasso di necrofilia
verso le donne: maneggia costantemente e senza particolare orrore tre vecchie mummie
ingiallite di donne uccise in un lontano passato e rinvenute durante i lavori
di restauro nell’intercapedine di un muro, appunto Nel muro, di una vecchia
e cadente baita che ha acquistato per andare ad abitare nelle solitudini
montane. Tre mummie che in numerosi incubi del montanaro dormiente sonni
agitati lo montano mentre lui passivamente accetta e non riesce a ribellarsi.
Per chiarire: nell’incubo o nel sogno ha comunque rapporti sessuali con tre
donne morte, anzi addirittura orrendamente mummificate, che lo possiedono per
così dire maschilmente, fatto questo in cui una verità inconscia del
protagonista a monte dell’odio per le donne viene ad espressione: la paura e nel
contempo il desiderio di essere femminilmente sottomesso al femminile,
desiderio contrastato, ma inconsciamente attivo. Da tale orrore lo salva in qualche
misura il citato affetto della cerva, di un femminile, va ribadito, comunque privo
dell’uso della parola e completamente sottomesso. Aggiungendo una brevissima
nota relativa a un tipo di assonanza linguistica, in italiano: cerva-serva,
assonanza presente nelle associazioni inconsce del personaggio, se non anche in
quelle consce. La cerva dunque è la compagna più sincera del montanaro, colei
che non lascia mai l’uomo che non ha amici tranne lei e e un vermiciattolo
scoperto in una foiba dove l’uomo vorrebbe andare a morire.
La volontà del
protagonista dunque di restaurare la vecchia baita di montagna appartenuta, per
quanto ne sa al momento dell’acquisto, a sconosciuti e che diventerà la sua
casa più abituale si presenta piuttosto chiaramente come un tentativo di
restaurare la propria personalità in rovina – la casa è, tra l’altro, un
simbolo classico della personalità umana. Essa è descritta nel primo capitolo
del romanzo, primo piano che evidenzia la sua speciale importanza nella vicenda
narrata. L’uomo, spinto da una forza inconscia, vuole rendere abitabile tale
vecchia casa precaria e inospitale, ormai un rudere buono per i corvi e il pivasòn,
l’uccello della morte che con il suo lungo becco succhia il sangue dei
ciuffolotti non solo per nutrirsi, ma anche per il piacere di uccidere – così disse
il padre del protagonista –, l’uccello che secondo la superstizione popolare non
si deve mai guardare in quanto chi lo guardasse morirebbe entro breve tempo.
Una baita non per vivere, ma per morire, come dichiara lo stesso protagonista. Nella
baita l’uomo inizia il restauro sfondando il muro interno con il piccone, ossia
sul piano metaforico: abbattendo l’ostacolo più resistente e andando coraggiosamente
in profondità nella propria personalità, intercapedine dove si trova di fronte
al suo problema più grosso, quello relativo a concrete donne morte ammazzate,
diversamente dalle sue statue di donne mutilate a colpi di scure che ne sono un
surrogato per così dire. Sulla pelle rinsecchita delle tre mummie ci sono
strani segni che paiono di un idioma sconosciuto che il personaggio vorrà
decifrare a tutti i costi, il linguaggio ignoto dell’inconscio che si è
palesato nella sua forma non immediatamente comprensibile. Di fatto il romanzo
consiste precipuamente nei tenaci tentativi del protagonista di capire tali
messaggi incisi sui cadaveri delle tre donne, messaggi che si dischiudono alla
fine della vicenda con il chiarimento di quanto possa stare alla base della
personalità così inquietante dell’uomo, che risulta essere un serial killer
mancato, ossia non realizzato pienamente, ma comunque tale nella personalità,
come confessa il personaggio stesso. Il protagonista dunque porta avanti tale
indagine consultando esperti di vario tipo, anche un pievano – il protagonista
è anticlericale, non stima i preti, né crede nell’al di là –, i quali però non
sanno in generale decifrare quei segni, ciò da cui emerge come sia l’individuo
da solo a dover ricercare la propria verità senza aspettarsi l’aiuto di
nessuno. Feroce è la presentazione dello psicologo che condivide con lui la
volontà di uccidere le donne e che nel prosieguo del tempo passerà all’azione
uccidendo realmente, non solo nel desiderio, cinque donne e venendo condannato
con due ergastoli, uno psicologo che ha ancora più problemi di chi dovrebbe saper
curare.
Diegeticamente la
ricerca di decifrare i messaggi scritti sulle mummie – o nell’inconscio più
nero – viene condotta dallo scrittore Corona con continui rimandi a successive
fasi esplicative nel prosieguo dei capitoli, rimandi che appunto prorogando la
soluzione riescono a tenere desta la suspense. Per chi è interessato solo
o in primo luogo alla trama bruta delle opere letterarie, ossia per chi sta
nella superficie della narrazione, ciò può risultare fastidioso, non così per
chi voglia capire il significato del romanzo che, va tenuto presente, è un
thriller psicologico, non un romanzo d’azione o di avventura. La lentezza nel
procedere dei pochi eventi concreti rappresenta in realtà molto efficacemente la
difficoltà insita nell’impresa di sondare e decifrare la muta vita interiore,
dove sta la verità ultima dell’uomo. I segni scritti sulla pelle delle donne
con un appuntito e tagliente becco di corvo quando ancora erano vive riveleranno
soprattutto l’identità più profonda e verace del protagonista, i fatti occorsi
e codificati nell’oscuro e misterioso linguaggio a monte della personalità. In
altri termini: in questo thriller di Mauro Corona l’indagine è squisitamente
psicologica, condotta dal protagonista che scava in se stesso, oggettivato in
una baita cadente e restaurata proprio con lo sfondamento del muro, restauro
che rende l’abitazione capace di resistere alle intemperie della montagna –
alle intemperie della personalità del protagonista. Una narrazione che è
godibile su due fronti, uno relativo ad una concreta storia, l’altro relativo a
un viaggio ad oltranza nell’inconscio, un viaggio molto ben strutturato in una
concatenazione di eventi che appaiono concreti.
Il protagonista della vicenda, un intagliatore divenuto nel tempo ricco e famoso grazie alle sue inquietanti sculture lignee di donne, riesce ad un certo punto a instaurare, come anticipato, un rapporto positivo con una donna, che definisce la donna senz’ombra sulla scia di un’opera di Hugo von Hofmannsthal che viene citata nel romanzo. Si tratta tuttavia di una donna non del tutto reale in quanto appunto non proietta alcuna ombra, che proietterebbe se avesse un vero e proprio normale corpo. Se non un prodotto dell’immaginazione, senz’altro una donna non proprio tale per così dire. Lasciando stare qui qualsiasi raffronto con la fiaba di Hofmannsthal, con lei il protagonista è abbastanza sereno, sente in sé una buona disposizione per una donna. Il protagonista è anche un audace e abile scalatore e porta la donna a scalare le montagne a lui tanto care ed essa si dimostra capace di seguirlo come un gatto (189). Le insegna anche a scolpire. Ma la donna senz’ombra, ossia senza corpo, metaforicamente quasi un doppio dell’uomo al femminile, abbandona poi l’uomo stesso per un altro uomo e lascia il solitario artista e arrampicatore nella disperazione (189):
“(…) È mostruosa, feroce, unica, la
determinazione di una donna che non ti vuole più. Cambia volto, espressione,
occhi. Ti senti perduto, demolito, polverizzato, senza il minimo appiglio per
tenerti a galla (…)”
Il narcisismo maschile del protagonista riceve un durissimo colpo, ma non si tratta solo di questo nel messaggio del romanzo. Il dolore acuto per l’abbandono si riferisce anche e forse soprattutto al fatto di dover vivere da solo, senza una compagna, senza una donna quale immagine materna, al di là della muta quanto fedele cerva o serva. Tale donna pare aver dato molto al protagonista nella cui interiorità ha fatto sbocciare una diversa conoscenza del femminile, un sentimento dell’amore come in una felice pausa di riposo o quasi riposo del consueto odio, ma l’abbandono tuttavia evita che cambi l’impostazione generale della sua personalità rispetto alla relazione con le donne, come a dimostrazione del fatto che i rapporti affettivi realmente utili agli esseri umani, quelli che danno senso alla vita, siano quelli positivi, ossia quelli che vanno a buon fine e dei quali l’uomo non ha avuto esperienza in precedenza. La donna è sì positiva, ma è appunto senza ombra, è un essere che ha molto dell’irreale, sembra quasi frammista alla fantasia dell’uomo, non è una donna alla fine troppo diversa dalle altre, abbandona il montanaro per un altro uomo che pare interessarla di più, è l’uomo che la interpreta diversamente dal solito, come in un tentativo di riappropriazione della madre, tentativo che non riesce perché anche questa donna lo lascia definitivamente come già la madre. Il positivo sta negli anni trascorsi con lei, accanto alla mamma perduta nell’infanzia – il restauro della baita ha dato i suoi frutti –, accanto a una mamma nuova che ripete sì il vecchio Leitmotiv dell’abbandono, ma in età adulta e ad avvenuto restauro. L’abbattimento del protagonista di fronte all’abbandono della donna evidenzia comunque nel romanzo come i sentimenti d’amore siano sempre leopardianamente assoluti, sorti per durare tutta la vita in una comunione di cuori, esperienza che appunto il protagonista non ha avuto che per un periodo e non del tutto compiutamente se si deve dare un senso alla mancanza dell’ombra – l’eventuale metafora per l’assenza di macchia non regge in quanto di per sé non cancella comunque la realtà dell’assenza di ombra, quindi la non perfetta realtà della persona permane, ciò che sottolinea come il recupero del femminile avvenga inevitabilmente solo in un cambio di ottica del protagonista, mentre i fatti si ripetono restando i medesimi nel loro schema generale.
Per quanto riguarda le donne presenti nel romanzo, esse non parlano quasi mai in prima persona in dialoghi, ossia prevale il silenzio delle stesse, in questo simili a chi non abbia diritto alla parola nel mondo del protagonista. Si tratta di esseri di cui emerge come, nella quasi totalità – le eccezioni sono costituite dalla madre del protagonista e dalla donna che gli fa da mamma per un certo tempo – siano disponibili a farsi vittime dei maschi sottovalutando la maggiore forza fisica degli stessi e la loro non infinita pazienza che si manifesta nelle scariche violente sui più deboli, specialmente sulle donne in quanto parte debole della società. Queste donne spesso irridono molto stoltamente i maschi sentendosi ad essi superiori, superiorità che si basa tuttavia non sul possesso di intelligenza eventualmente superiore a quella in possesso dei maschi, bensì si basa semplicemente sul possesso dell'attrattiva sessuale che esercitano sugli stessi, un'attrattiva che non le rende in realtà superiori ai maschi in nessun modo, come viene messo in evidenza nel romanzo le donne vengono anche uccise per la loro sciocca irrisione del più forte. Queste donne, per come sono presentate nel romanzo, non capiscono per nulla, come già accennato, la complessa personalità del maschio e la sua non infinita pazienza, non capiscono neanche come non sia cosa buona e saggia stuzzicare l'animale più forte e non sciocco, spesso intollerante verso le irrisioni da parte delle donne. Il terribile Galvan – come si apprende verso la fine del romanzo, l’assassino delle donne, tra cui la figlia stessa – afferma che le donne se la vanno a cercare la disgrazia con i maschi e questo sembra essere piuttosto vero in quanto esse non si accorgono di chi stia loro di fronte, un animale tanto più forte fisicamente di loro e – vedi la Porphyria di Browning – diverso da loro nell’impostazione verso la vita, nella visione del mondo, un animale che può far loro pagare il fio di una semplice presa in giro uccidendole con totale facilità, ossia tali donne sembrano mancare di qualsiasi vigilanza, di intelligenza. In ciò sta la grande debolezza delle donne per come viene mostrata ampiamente e oggettivamente nel romanzo a dispetto di quanto affermi esplicitamente qualche volta il protagonista che le ritiene più forti dei maschi perché dotate di attrattiva sul piano sessuale, attrattiva che possiedono essi stessi in ugual misura o quasi.
Centrale risulta nel
romanzo l’influsso dell’arte quale potente strumento di espressione della
visione del mondo degli artisti, soprattutto inconscia, quale strumento di
catarsi per l’artista e universalmente per l’Uomo interessato all’arte – le
orride sculture del protagonista hanno successo, piacciono agli umani, che ne
traggono pertanto beneficio nel profondo come espressione di verità che, chiuse
nei circuiti muti della personalità, emergono avendo voce in varia misura e
modalità, consentendo così la scarica liberatrice delle tensioni accumulate
nella rimozione.
Una finale nota fuori
analisi sulla derivazione ereditaria geneticamente cui si rifà il protagonista
per spiegare la propria bestialità interiore. Andando indietro nelle ere, spicca
una caratteristica nei primati socialmente organizzati ad harem con il maschio
dominante, che riporto con un aneddoto significativo. Un maschio aveva preso di
mira una femmina senza averne un motivo plausibile qualsiasi, mentre tutti gli
altri del branco stavano a guardare lo spettacolo. Ad un certo punto uno di
essi, figlio di quella femmina, intervenne a difesa della stessa facendo
smettere il massacro che di fatto finì, troppo tardi tuttavia in quanto la
femmina morì poco dopo a causa delle ferite mortali subite. In una comparazione
con l’attualità, questo maschio è l’esempio di come debbano essere i maschi ad
agire essendo i più forti membri della società umana e detenendo il potere, ossia
come debbano assumere essi l’iniziativa per prendere aperta posizione contro i maschi stessi, ossia come debbano essere essi a intervenire molto
esplicitamente per fare smettere ai maschi il cosiddetto femminicidio come viene indecorosamente
definita l’uccisione delle donne invece che con il termine più consono donnicidio,
parallelo in qualche modo a omicidio.
Nel muro di Mauro Corona attua questo intervento maschile che denuncia il negativo di tanti maschi. Il romanzo spezza
una lancia, brandita da un uomo, da un maschio, contro la violenza sulla donna denudando
il lato più oscuro di una parte del mondo maschile, ciò non tralasciando di evidenziare una certa mentalità diffusa nelle donne che non depone a loro vantaggio. Un'opera letteraria coraggiosa, in
cui il protagonista, un uomo, non ha paura di rivelare i suoi lati negativi più segreti.
Per finire in bellezza l'analisi dell'importante romanzo Nel muro: la montagna friulana trova in Mauro Corona un vero e proprio cantore, che quasi sembra condividerne, per così dire, l'anima più profonda e più vera, come mostrano le sue descrizioni che non hanno nulla a che vedere con la presentazione della stessa come si ha a scopi turistici, la quale nasconde la verità di una tale natura che respira e ispira in realtà tristezza e spavento, simboleggiata emblematicamente nel romanzo dal pivasòn, il crudele uccello della morte che ne è l’abitante sovrano.
Rita
Mascialino