lunedì 27 novembre 2023

Maria Teresa Infante e la poesia  Rosso sangue: analisi e interpretazione

di Rita Mascialino

 

Di una silloge poetica come quella di Maria Teresa Infante, Rosso sangue (Bari BA: Oceano Edizioni 2018), bisognerebbe analizzare ogni singola poesia, tanto belle e tanto profonde semanticamente sono le composizioni, introdotte dalla poetessa, scrittrice e saggista Franca Alaimo e dalla relazione di Anna Maria Pacilli, medico chirurgo specialista in psichiatria, sessuologo clinico ed esperto in criminologia. Non verrà data qui né una Recensione che resterebbe necessariamente sulle generali, né una riflessione sui donnicidi altrettanto generale, bensì verrà analizzata dal punto di vista della semantica espressa nei versi la lirica posta come titolo per la raccolta, ossia Rosso sangue (28-29). Una poesia dall’impatto particolarmente incisivo sulle coscienze, straordinaria e commovente nel profondo, una poesia che non dà scampo al colpevole, non per odio e vendetta, ma secondo giustizia, una giustizia inesorabile che non prevede sconti di pena per buona condotta, possibili vie di fuga, né appelli alla più ingiusta gelosia  amorosa, ma che vede imporsi su ogni considerazione la colpa dell’uomo che si arroga il diritto di eliminare la donna dalla vita, quella vita che al di là di ogni speranza o illusione religiosa è unica e irripetibile occasione su questa Terra. Uccisione che, accenniamo a esplicitazione delle motivazioni a monte delle uccisioni, la donna meriterebbe per uno sgarbo o l’altro fatto a colui al quale la donna non può fare sgarbi di nessuna tipologia, ma che solo può farne, a lei in particolare perché più buon mercato. 

L’ingresso della donna nella lirica è solenne, accompagnato dal rintocco sinistro della maestosità della morte. La donna della lirica è ormai essere non più vivente, uccisa da mano maschile e trasformata come canto incompiuto e come mare, come canto del mare, quel mare cui essa è ritornata per sempre e del cui non lieto mugghio è ormai componente per l’eternità. Il suo spirito ha dunque cittadinanza negli spazi immensi del mare e del cielo infinito, perché essa è non solo mare e voce del profondo, ma anche essenza più spirituale dell’alto dei cieli, simboli, nel contesto, accomunati dalla non vita, dal passaggio della morte, la quale viene anche quasi direttamente rappresentata come tremenda figura al capezzale della donna in suo potere, mentre, in un’immagine degna di Edgar Allan Poe, si abbevera essa stessa al rosso sangue che di essa è stato sparso, attendendone l’uscita dalla vita: la donna si è fatta pietra e onda che si abbatte sugli scogli e si inabissa poi quietandosi nei fondali, dove si mescola con l’essenza spirituale del cielo.

In questa atmosfera tristissima e tragica non si inseriscono il lamento e il pianto della vittima, bensì si fa audacemente avanti la volontà ad oltranza della donna, che pure ha dovuto soccombere, di non arrendersi all’uomo che l’ha uccisa:  essa, appunto come onda del mare cui appartiene, può avere in sé la potenza della morte – espressa nella metafora spaventosa del mare – e sommergere l’uomo quale nemesi per la sua azione colpevole, quale presenza incombente per la cattiva coscienza dell’assassino che essa tiene desta come memoria e peso dei rimorsi, novella Erinni. Il rosso del fuoco d’amore si è ora trasformato in sangue di morte che esce dal costato della donna in una lontana eco in assonanza con il sacrificio di Cristo innocente sulla croce, nella quale stanno uniti piacere e martirio della donna, dove il colore rosso dell’amore è anche il colore del sangue versato dall’uomo che l’ha uccisa, della morte quindi e del peccato dell’uomo dunque, memoria che essa ora rappresenta per lui. Un’unione solo nefasta di amore e morte, morte portata dall’uomo alla donna.

Colpisce nella poesia la quasi profezia minacciata dalla donna ormai morta contro l’uomo che l’ha uccisa: come onda dell’immenso mare ora lei lo può annegare. Questo significa sì, come più sopra accennato, un metaforico annegamento nell’onda della memoria dei possibili rimorsi agìta dalla nemesi, ma ancora più lungimirantemente: l’onda costituita dalle donne uccise potrà sconfiggere, proprio con la potenza immensa della morte contro la quale neanche l’uomo più forte nulla può, il genere maschile facendone tramontare il potere, facendolo soccombere senza che neppure se ne avveda, tanto sicuro di sé appare ora mentre vive sulla Terra avendo il potere sulle donne viventi. È nell’onda minacciosa delle donne morte per mano maschile che l’uomo potrà soccombere. Così secondo i potenti versi profetici “Io sono il mare/ e l’onda che ti può annegare”. Ma anche “la goccia”, che sappiamo capace di scavare la pietra, goccia uscita dalla ferita al petto, con termine evocante, come più sopra, la crocifissione di Cristo con associazione esplicita in successivi versi all’immagine della croce stessa.

La donna di Maria Teresa Infante è vittima sì, ma non si rassegna e combatte con maggiore forza dai reami della morte – e della poesia foscolianamente capace di resistere al tempo – contro l’assassino che vuole sconfiggere con il proprio sacrificio. Non c’è richiesta di tregua, di conciliazione, almeno non in questa lirica potente che presenta la donna in veste non di giustizia divina cui la donna della Infante qui non si appella, e tanto meno di quella umana, che non ha salvato la donna, ma di nemesi profetizzata dalla donna con tutta la potenza dei millenni – o anche dei milioni di anni – di ingiustizie, ferimenti e morti subite. Con questa arma tremenda della morte la donna di Maria Teresa Infante riuscirà a sconfiggere il proprio  assassino. Una lirica che dà alla donna l’ultima arma, la più potente, quella della memoria storica e anche oltre perché la brandisca e con tale memoria compia la più giusta nemesi: “io sono sangue/ il rosso che hai versato// sono la morte/ ora/ il tuo peccato.”

Peccato da espiare con la possibile sommersione nell’onda formata dalle donne che l’uomo ha ucciso, uomo che voleva amarle e che invece ha assassinato, onda delle donne morte che in sé hanno da sempre rappresentato e rappresentano l’amore, quell’amore ripagato dall’uomo con l’uccisione sul piano concreto e psicologico. La donna uccisa non perde comunque la sua natura, non diviene volontà di rivalsa, ma si fa fieramente forte della sua caratteristica fondamentale, intramontabile: essa è ”l’amore/ il rosso che non muore”, ossia: il rosso del sangue può essere versato e portare la morte, ma non il rosso dell’amore, di cui è depositaria privilegiata la donna di Maria Teresa Infante, il quale non perirà mai e che resterà il suo contrassegno più nobile e tenace in tutto il suo passato e presente come segno indelebile della sua presenza sulla Terra. In altri termini: proprio la sua morte, con la quale l’uomo che la uccide ha voluto e vuole eliminarla, agirà dunque come giustizia della memoria che porterà più ordine nelle cose umane, questo ci dice la temibile metafora dell’onda oscura del mare, la sua voce.  



Una lirica di eccezionale potenza, diversa da quelle che, dolcissime, cantano la donna quale vittima soccombente, più debole e non consona a fronteggiare la maggiore forza maschile, ma appunto: solo nella vita, acquisendo al contrario la maggiore forza proprio nella morte, in quella morte che l’uomo le ha dato illudendosi della vittoria. La volontà della donna di Maria Teresa Infante, una donna nuova, pur nel sacrificio di sé che permane, di non arrendersi alla sconfitta – apparente – nella sua esistenza concreta, le fa imbracciare l’arma vincente, quella della memoria della morte ingiusta, memoria maggiore ben più forte di quella in vita che presto scompare, quella al contrario che regge al tempo, a tutti i tempi umani. 

Questo ci comunica, alla luce dell’analisi oltre la prima superficie che parla di sacrificio della vittima, questa poderosa poesia, Rosso sangue, di Maria Teresa Infante, capace di sommuovere le coscienze nel profondo come mai prima, come la più inesorabile onda del mare mugghiante, nell’eco del terrore evocante le sinistre atmosfere di Edgar Allan Poe e non solo, come il cielo più spirituale nel contempo reso spaventoso anch’esso nella tenebra notturna affine all’oscurità del fondo del mare.  

                                                                                                                 Rita Mascialino


 



mercoledì 22 novembre 2023

 “Eugeniu Tibirnac e il Vento di fiori

di Rita Mascialino

 

L’Artista Eugeniu Tibirnac (Repubblica di Moldova, artibirnac.com), diplomato all’Accademia di Belle Arti a Chișinău, già Direttore della Scuola di Pittura di Drochia e docente Universitario, è tra l’altro redattore artistico del giornale Donna di Moldavia, restauratore di opere d’arte situate in antiche chiese, nonché illustratore di fiabe, oltre che autore di numerose tele a olio e in acrilico, acquarelli e disegni acquarellati, anche affreschi. Diversi stili, quali simbolismo, cubismo, surrealismo e impressionismo, confluiscono nelle sue opere trovando una spiccata personalizzazione, la quale conferisce ai suoi quadri identità artistica unica al di là di qualsiasi conformismo. È artista noto e apprezzato internazionalmente, sue opere sono conservate in collezioni pubbliche in tutto il mondo.

Venendo direttamente alla connotazione centrale e generale dell’arte di Eugeniu Tibirnac, si riconoscono proiettate in essa e perfettamente armonizzate nell’immagine di superficie simbologie estetiche del profondo che testimoniano di un’ampia e articolata visione della vita.

Come esempio di quanto testé anticipato, diamo qui un cenno di analisi relativamente alla stupenda opera pittorica intitolata Vento di fiori, eseguita in acrilico, nella quale diversi piani semantici intrinseci all’esistere si fondono mirabilmente.

Si identifica in prima e più immediata impressione una massa floreale su di una struttura sottostante trasparente, apparentemente di vetro, che si interpreta come un vaso. Osservata l’immagine più globalmente dopo la prima impressione concernente la parte più evidente, si identifica una forma a croce posta a sfondo dei fiori, nella quale il vaso sottostante viene a costituire il braccio inferiore. Se la simbologia esteriore pare essere quella di un particolare vaso di fiori tracciato nello stile del surrealismo impressionistico, nella diversa prospettiva le cose cambiano pur conservando come base la precedente percezione dei fiori. In dettaglio: la spazialità della croce reca con sé in primo luogo un alone di morte stando essa nei cimiteri cristiani sulle tombe ed essendo stata il patibolo sul quale è morto Cristo – che poi sia risorto, non riguarda la croce, ma ciò che accade dopo che il corpo è stato deposto dalla croce che resta un simbolo di morte. Per altro la croce quadrata, in uso ancora nell’Europa orientale nella religione cristiano-ortodossa, risulta essere un Leitmotiv della produzione artistica di Eugeniu Tibirnac, tema su cui qui comunque non possiamo soffermarci in quanto non compreso nell’assunto di questa analisi. Nella tela la croce può essere spiegata come simboleggiante la dipartita di una persona amata che si vuole ricordare con i più bei fiori – si veda al proposito anche la collegabile sovrapposizione della spazialità di un nastro alludente alla confezione di un dono, il tutto espresso nella più simbolica condensazione iconica. Affondando ancora maggiormente lo sguardo, si scorge nel braccio sinistro della croce una struttura come di una parte di un muro che stia crollando. Questo particolare arricchisce ulteriormente la simbologia che viene ad essere direttamente associabile a una ipotizzabile liberazione da trascorse dolorose oppressioni per il superamento delle quali sia stato sparso sangue, ciò cui rimanda metaforicamente il colore rosso dei fiori. Occhieggia qui e là, quasi timidamente, qualche petalo azzurro, cromie che si riconoscono come i due colori puri della bandiera moldava, trasfigurati in papaveri e fiordalisi, si potrebbe dire, nella fioritura di un’avanzata e matura primavera con la simbologia, nel contesto, rispettivamente dell’amore patrio e del sangue dei martiri sparso in cruente lotte per la libertà, e l’azzurro di vasti cieli come anelito di libertà da ogni catena. Una tela che in quest’ultima più completa interpretazione si rivela un omaggio dell’Artista alla sua patria, al suo popolo, in una simbologia profonda che provvede l’opera floreale in sé di ulteriori complessi livelli di significazione. Quest’ultima prospettiva apre – consciamente o inconsciamente – la possibilità del più ampio contesto associativo riferibile a tutta l’umanità degli oppressi che lottino per la libertà, ciò che dà all’opera respiro universale.

Per concludere, un cenno esegetico al titolo Vento di fiori, pure altamente simbolico. La presenza del vento si inferisce dal movimento che contraddistingue la spazialità di fiori e petali, che paiono trasportati da una gagliarda folata di vento che si soffermi sulla croce dedicata ai caduti, un dono dello spirito libero del vento che supera ogni ostacolo offrendo anche la sua voce come canto e pianto commemorativo, il tutto su di un piano non più cruento, ma sublimato in auspicio per la pace tra i popoli.

Così nella poderosa opera Vento di fiori di Eugeniu Tibirnac della quale qui è stata presentata la sintesi semantica.

Rita Mascialino

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Immagine: 'Studio Fotografico Valentina Venier' Udine, Via Grazzano 38 - 345 346 36503 

settembre 2022.

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lunedì 13 novembre 2023

 Mascialino, R., (2023) Pietro Malavolta, ‘Dilogia Kafkiana. Cavallo - L’altra metamorfosi’: Analisi e interpretazione.

Assegnazione al Premio Franz Kafka Italia ® XV e XVI Ed. 2023 rispettivamente alla Cultura Carriera Immaginazione e per il Disegno Artistico.

 

“I bassorilievi Cavallo (40x60 cm, 48x78) e L’altra metamorfosi (38x48 cm, 48x68) dello scultore Pietro Malavolta fanno parte della Dilogia Kafkiana (2013) incentrata sul tema della creatività artistica. Le due sculture sono eseguite secondo la tecnica dello sbalzo e saldatura di metalli quali rame, bronzo, inoltre con finitura in argento e intervento pittorico su cornice lignea. L’opera fa parte del genere dei bassorilievi, nello specifico è del tipo dello stiacciato così denominato da Donatello (Firenze 1386-1466), che ne fu l’ideatore e massimo esponente, ossia un bassorilievo ‘schiacciato’, il più basso di tutte le altre distinzioni di rilievi come bassorilievo, mezzorilievo e altorilievo. Nello stiacciato le sporgenze sono minime, così che la profondità prospettica viene data da quasi impercettibili chiaroscuri generati tra i livelli dei vari rilievi, tra i primi piani e lo sfondo, ciò che assieme alle diverse cromie dà più immediatamente l’apparenza di un disegno o di un’opera pittorica – anche la cornice lignea, che integra la scultura come nell’altra componente della Dilogia, contribuisce, tra l’altro e di  primo acchito a evocare l’impressione di trovarsi di fronte a un dipinto, salvo poi a riconoscere nel rilievo per quanto bassissimo una presenza per così dire più concreta relativa al rappresentato.



Entro questa prospettiva concettuale il soggetto comprensivo della cornice esprime la visione del mondo dell’Artista fornendo una rappresentazione del rapporto tra la vita materiale raffigurata nell’immagine e quella immateriale implicita alla rarefazione del concreto fino all’incorporeità totale propria del cielo raffigurata nella cornice. In altri termini: nelle forme che si espandono nelle cornici perdendo la riconoscibilità intrinseca alla loro immagine è espressa una dinamica di evanescenza nell’impalpabile, ciò che nel contesto dà simbolicamente alla vita la dimensione spirituale, religiosa in senso più specificamente mistico vista la prospettiva cosmica. Chiarendo ancora: l’esistenza non finisce per Malavolta all’interno del rilievo sebbene perda nella cornice la sua identità materiale e individuale in un surrealismo simbolico, ma si continua nel cielo fondendosi con esso e acquisendo in tal senso valore di spiritualità. Così l’esistenza ha nella Dilogia come finalità al termine della materialità dei corpi una spiritualizzazione sul piano mistico, il tutto in uno stile surrealistico.

Dopo il cenno alla visione generale dell’esistere in Pietro Malavolta espressa soprattutto relativamente al rapporto contenuto-cornice nella Dilogia, passiamo al soggetto equino-umano che si ispira all’interpretazione relativa al celebre racconto kafkiano Der plötzliche Spaziergang come è interpretato in vari studi e precipuamente nel saggio Il cavallo nero o l’altra metamorfosi di Franz Kafka (Mascialino 2011: Cleup Editrice Università di Padova), in cui è stata individuata esclusivamente sul piano dell’esegesi linguistica una straordinaria metamorfosi in cavallo nero mai identificata prima in più di un secolo di critica nazionale e internazionale, esegesi linguistica che si richiama teoricamente al principio base intrinseco all’Umanesimo Italiano e ripreso con il ‘Secondo Umanesimo Italiano ®’ (Mascialino 2011 e segg.) come necessità di indagare il significato che l’arte ha in sé oggettivamente, al di là di libere quanto inutili interpretazioni non consone al livello di una ricerca del significato. Dall’esegesi contenuta nel saggio Pietro Malavolta ha derivato due interpretazioni scultoree diverse, assolutamente originali come secondo la sua acuta sensibilità artistica espressa con formidabile abilità tecnica e visione del mondo, ciò che ne ha fatto due capolavori nell’arte del bassorilievo.

In questa analisi di tali sculture malavoltiane vengono forniti inevitabilmente brevi rimandi alla metamorfosi kafkiana in cavallo nero onde evidenziare sia le differenze fra le visioni del mondo dei due artisti, sia il fondamento concettuale condiviso da essi ciascuno nel proprio filone culturale e artistico, il quale a sua volta si inserisce, come anticipato, nella scia del surrealismo sulla base di una figurazione realistica che nei due artisti non abbandona gli schemi realistici che solo vengono trattati liberamente, appunto come in immagini oniriche, ma sempre in modo ancora riconoscibile rispetto al reale cui si riferiscono: un surrealismo letterario in Kafka, appartenente direttamente all’ambito visivo in Malavolta.

Vediamo preliminarmente dunque alcune coordinate dell’ideazione kafkiana. In Kafka il cavallo è un nerissimo morello che sorge nella tenebra della notte quale trasformazione del protagonista umano, proiezione di Kafka, da profondità sotterranee altrettanto tenebrose, cavallo nero simbolo principe dell’inconscio più creativo, con tonalità anche erotica. Questo secondo la personalità di Kafka che nel racconto, sul filo di una serie cospicua di periodi ipotetici riferiti al suo desiderio e all’emersione di una sua potente autoconsapevolezza, lascia la casa e la famiglia per un’improvvisa passeggiata notturna, e in questa si proietta e trasforma in piena libertà da qualsiasi obbligo e costrizione borghese e familiare nel poderoso e magico animale della sua fantasia.

Diversamente, la testa di Cavallo scolpita da Malavolta abbandona la tenebrosità e offre un magnifico sauro dall’intensa cromia propria dell’oro rosso e con fitti bagliori dell’oro fino nella sua criniera, sauro che sorge da uno sfondo fatto di velatura di nebbie a chiaroscuri movimentati dalla dinamica dell’animale, come mostrano la criniera non statica e la forma ramata in diagonale evocante la spazialità di arti surrealisticamente staccati dal corpo equino e posti in slancio ed elevazione. Nebbie che sfumano l’oscurità che si intuisce alle loro spalle come origine inconscia della creatività artistica, un po’ come a simboleggiare il viaggio creativo dall’inconscio più profondo e indefinito nella formazione del messaggio. Lo scultore Malavolta ha colto in pieno la speciale preziosità del simbolico morello kafkiano, trasferendola originalmente nel suo mondo interiore e così modificandone l’apparenza e in parte conseguentemente la sostanza in dettagli rilevanti. Anche il bassorilievo malavoltiano presenta l’ispirazione come qualcosa che porti traccia del mondo oscuro da cui possono emergere i tesori dell’arte, tuttavia l’uomo, in questa prima parte della Dilogia, non si trasforma in cavallo, come andiamo a vedere. Il sinistro e lo spaventoso presenti nel morello kafkiano appaiono, sebbene in una forma meno direttamente impattante e più in secondo piano, anche nell’opera di Malavolta. Parallelamente alla testa equina, che ha perso il collegamento con la tenebra kafkiana, alla sua destra e unita strettamente ad essa sta inserita una testa umana, un profilo umano privo di qualsiasi tratto della vita corporea, concreta, quasi un fantasma con orbite vuote e qui sta il tratto del tutto inquietante, più ancora della tenebrosità kafkiana. Tale volto dai tratti fatti di chiaroscuri tra il grigiastro e il grigio scuro, è assicurato strettamente al cavallo con un legamento rosaceo all’apparenza solido, così che i due volti per così dire appaiono come le due facce della creatività artistica unite, ma non fuse: una preziosa testa cavallina e un volto umano sofferente, legate assieme, ma non trasformate una nell’altra. Il volto umano, dall’espressione parzialmente alterata, guarda dall’altra parte quasi intimorito dalla presenza animalesca con cui stenta a identificarsi, ma il legame tra le due effigi, rosaceo e beneaugurante anche se coercitivo, mostra come l’unione sia cosa inevitabile per quanto inquietante per l’uomo. In quest’opera di Malavolta non vi è dunque la fusione di uomo e cavallo di cui consta la figura immaginaria di Kafka relativa a sé quale artista – il morello-Kafka si erge in tutta la sua più vera e imponente statura, ci dice il suo autore. In Malavolta viene data un’immagine doppia dei due aspetti della creatività non fusi insieme – che guardino in direzioni opposte sottolinea come non vi sia al momento la fusione uomo-cavallo e come l’uomo non voglia accettare tale istintualità animale. Qui, accanto all’aurea testa equina simboleggiante la preziosità della creatività, Malavolta tratteggia la fase propriamente oscura e profonda della creatività nel profilo umano, che esprime sofferenza e rifiuto dell’aspetto più estetico se questo debba avere fattezze animali per quanto necessarie. Anche la cornice si inserisce in questa elaborazione portando sia in alto che in basso, ovunque attorno all’immagine la presenza del cielo più sereno, dell’infinito, simbolo tradizionale del trascendente, dello spirituale che sta oltre la vicenda materiale, infinito in cui i contrasti si sfumano e svaniscono componendosi nel più definitivo equilibrio, in una pace eterna e immutabile. In tale luogo si tratta non più della vita chiusa all’interno dell’opera, ma di ciò che sta fuori di essa e cui tende l’esistere, di ciò che funge da protezione rassicurante come espresso nell’azzurro dei cieli. I due ambiti, esistenziale e trascendente, sono separati, ma li collega la rarefazione della vita stessa quale, in un ossimoro, forma informale della trasformazione finale, di una ulteriore metamorfosi che nella visione di Pietro Malavolta assume, come accennato, la connotazione mistica, religiosa. Luce del trascendente che supera qualsiasi animalità istintuale e creativa in Malavolta e che manca completamente nella metamorfosi kafkiana che si risolve nella più completa – e terrena – per quanto significativa tenebrosità dell’inconscio più profondo.

Per concludere questa analisi della prima opera della possente Dilogia troviamo due magnifiche interpretazioni di un diverso cavallo simboleggiante la creatività dell’arte: potente quello kafkiano fatto di tenebra e rappresentante un solipsismo o individualismo radicale dell’artista; preziosamente estetico quello malavoltiano sfociante in un equilibrante ritorno al trascendente da cui pare avere origine la vita con tutti suoi pregi, le sue qualità positive o negative che siano, la creatività artistica stessa, un trascendente dove non vi è più traccia di animalità qualsiasi connotante la vita dell’uomo.

Dopo aver analizzato lo stiacciato Cavallo di cui sopra, il significato del secondo stiacciato L’altra metamorfosi componente la Dilogia Kafkiana di Pietro Malavolta risulta più agevole alla comprensione – non dimentichiamo che si tratta di due opere artistiche complesse non solo come tecnica scultorea, ma anche come semantica data la condivisione della base kafkiana e l’elaborazione personale malavoltiana.

Malavolta trae ispirazione, come già accennato, dal saggio citato più sopra, derivandone una propria interpretazione profonda, molto diversa dalla metamorfosi kafkiana cui allude nel titolo – non per niente si tratta appunto di un’altra o dell’altra metamorfosi. In quest’opera grandiosa l’Artista realizza la trasformazione dell’uomo in cavallo creativo, dapprima rifuggita per il possibile, ponendo al contrario qui in primo e unico piano il momento in cui avviene la metamorfosi, del tutto spaventosa in sé, relativa al connubio uomo-animale, in senso simbolico uomo-creatività artistica, mentre è scomparsa ogni preziosità del magnifico Cavallo. Nella fattispecie, è presente solo lo sgomento e anche l’orrore di tale metamorfosi dell’uomo in un animale che non ha nulla della maestosità, per quanto sinistra, del cavallo kafkiano, né la bellezza del precedente aureo sauro malavoltiano. Il risultato, come emerge dall’immagine, è un volto umano in preda all’orrore e un muto grido, per così dire espressionisticamente raffigurato, per il proprio cambiamento di stato che si sta verificando ed è un cavallo il cui muso, assottigliato fino quasi a essere irriconoscibile come tale, è rivolto all’indietro per vedere che cosa stia accadendo del suo corpo e volto non più umani. Qui la creatività, pur protagonista come nel cavallo nero di Kafka e nella prima parte della Dilogia, è considerata mentre si fa e nel suo lato di sorpresa e di stupore, anche di acuta angoscia – già anticipata nell’inquietante volto umano presente in Cavallo –, come se la trasformazione dell’uomo in cavallo creativo avvenisse senza un consapevole benestare, senza una consapevole regia, quasi la creatività avesse preso – e prenda – la mano all’uomo come si dice, ossia come se questo fosse stato assalito e destabilizzato da un tale emergere cui comunque in qualità di artista non si sia potuto né si possa sottrarre – vedi solido legame rosaceo che tiene volto umano e testa equina indissolubilmente uniti già in Cavallo. Ribadendo, in quest’opera viene espressa in pieno la fase angosciante della creatività, il lato che sta nel profondo di ogni artista, secondo Malavolta il lato oscuro intrinseco alla creatività vera e propria: cavallo e uomo mescolati insieme in spaventosa e orrida fusione nel tormento e nel travaglio della creazione. Esteticamente prevalgono le tonalità cromatiche del verdastro e del bruno, del ramato, come in una astratta decomposizione della sbalorditiva metamorfosi in questione per come è raffigurata nello stiacciato. La presenza della cornice quale ripresa della visione del mondo dell’Artista mostra toni diversi da quella nel precedente bassorilievo: in alto dominano sempre le cromie dell’azzurro di un cielo infinito, ma la trasformazione che avviene nell’inconscio più creativo dà lateralmente molti dei suoi toni che si mostrano come turbini che si dirigono verso l’alto sfiorando – se così di può definire metaforicamente –  il luogo della trascendenza, anche un sole dello stesso colore dei turbini tormentosi che si elevano fino al cielo infinito per trovarvi pace. Una creatività che, nell’istintualità tanto speciale, sfiora e sfuma il divino stesso. Questo, tanto grande era in Pietro Malavolta il suo riconoscimento della preziosità dell’arte, dono del divino all’uomo, ciò nella sua visione del mondo di taglio mistico. Non si tratta di un’arte, quella cui allude Malavolta nella sua opera, dovuta a un’impostazione allegorica, progettata arbitrariamente e artificiosamente a tavolino secondo schemi razionali predeterminati, non ché per questo priva di ogni fase angosciante, ma di un’arte che esprime simboli in parte sconosciuti anche all’artista nella loro oggettiva semantica come lo sono i significati che si creano nel profondo, plurivalenti e misteriosi secondo la loro natura preminentemente inconscia.

L’arte dunque come metamorfosi prodotta dalla più intensa creatività umana raffigurata sia nel cavallo tenebroso e potente di Franz Kafka che coinvolge tutto l’uomo rivelandone la più vera e alta natura di artista, sia nel preziosissimo cavallo aureo e nell’affanno dell’emergere nella complessa e possente Dilogia Kafkiana: Cavallo – L’altra metamorfosi dello scultore Pietro Malavolta, Dilogia che trova coerente composizione nelle diverse gradazioni cromatiche del trascendente, come evidenziato molto significativamente  anche dalla diversa tecnica con cui è stata compiuta l’opera: più vicino all’afferrabile concreto per sua natura il bassorilievo,  inafferrabile la pittura nella semanticamente molto speciale cornice.

Così termina l’analisi della straordinaria, artistica metamorfosi malavoltiana, capace di evidenziare creativamente con il solo mezzo dell’immagine un’intera e più che mai complessa visione del mondo.

 

                                                                                                                       Rita Mascialino

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