Maria Teresa Infante e la
poesia Rosso sangue: analisi e
interpretazione
di Rita Mascialino
Di
una silloge poetica come quella di Maria Teresa Infante, Rosso sangue (Bari BA: Oceano Edizioni 2018), bisognerebbe
analizzare ogni singola poesia, tanto belle e tanto profonde semanticamente
sono le composizioni, introdotte dalla poetessa, scrittrice e saggista Franca
Alaimo e dalla relazione di Anna Maria Pacilli, medico chirurgo specialista in
psichiatria, sessuologo clinico ed esperto in criminologia. Non verrà data qui
né una Recensione che resterebbe necessariamente sulle generali, né una
riflessione sui donnicidi altrettanto generale, bensì verrà analizzata dal
punto di vista della semantica espressa nei versi la lirica posta come titolo per
la raccolta, ossia Rosso sangue (28-29). Una poesia dall’impatto particolarmente
incisivo sulle coscienze, straordinaria e commovente nel profondo, una poesia che
non dà scampo al colpevole, non per odio e vendetta, ma secondo giustizia, una
giustizia inesorabile che non prevede sconti di pena per buona condotta,
possibili vie di fuga, né appelli alla più ingiusta gelosia amorosa, ma che vede imporsi su ogni
considerazione la colpa dell’uomo che si arroga il diritto di eliminare la
donna dalla vita, quella vita che al di là di ogni speranza o illusione
religiosa è unica e irripetibile occasione su questa Terra. Uccisione che,
accenniamo a esplicitazione delle motivazioni a monte delle uccisioni, la donna
meriterebbe per uno sgarbo o l’altro fatto a colui al quale la donna non può
fare sgarbi di nessuna tipologia, ma che solo può farne, a lei in particolare
perché più buon mercato.
L’ingresso della donna nella lirica è solenne, accompagnato
dal rintocco sinistro della maestosità della morte. La donna della lirica è
ormai essere non più vivente, uccisa da mano maschile e trasformata come canto incompiuto
e come mare, come canto del mare, quel mare cui essa è ritornata per sempre e
del cui non lieto mugghio è ormai componente per l’eternità. Il suo spirito ha dunque
cittadinanza negli spazi immensi del mare e del cielo infinito, perché essa è
non solo mare e voce del profondo, ma anche essenza più spirituale dell’alto
dei cieli, simboli, nel contesto, accomunati dalla non vita, dal passaggio
della morte, la quale viene anche quasi direttamente rappresentata come
tremenda figura al capezzale della donna in suo potere, mentre, in un’immagine
degna di Edgar Allan Poe, si abbevera essa stessa al rosso sangue che di essa è
stato sparso, attendendone l’uscita dalla vita: la donna si è fatta pietra e
onda che si abbatte sugli scogli e si inabissa poi quietandosi nei fondali,
dove si mescola con l’essenza spirituale del cielo.
In questa atmosfera tristissima e tragica non si
inseriscono il lamento e il pianto della vittima, bensì si fa audacemente
avanti la volontà ad oltranza della donna, che pure ha dovuto soccombere, di
non arrendersi all’uomo che l’ha uccisa: essa, appunto come onda del mare cui appartiene,
può avere in sé la potenza della morte – espressa nella metafora spaventosa del
mare – e sommergere l’uomo quale nemesi per la sua azione colpevole, quale presenza
incombente per la cattiva coscienza dell’assassino che essa tiene desta come memoria
e peso dei rimorsi, novella Erinni. Il rosso del fuoco d’amore si è ora
trasformato in sangue di morte che esce dal costato della donna in una lontana eco
in assonanza con il sacrificio di Cristo innocente sulla croce, nella quale stanno
uniti piacere e martirio della donna, dove il colore rosso dell’amore è anche il
colore del sangue versato dall’uomo che l’ha uccisa, della morte quindi e del
peccato dell’uomo dunque, memoria che essa ora rappresenta per lui. Un’unione solo
nefasta di amore e morte, morte portata dall’uomo alla donna.
Colpisce nella poesia la quasi profezia minacciata
dalla donna ormai morta contro l’uomo che l’ha uccisa: come onda dell’immenso
mare ora lei lo può annegare. Questo significa sì, come più sopra accennato, un
metaforico annegamento nell’onda della memoria dei possibili rimorsi agìta
dalla nemesi, ma ancora più lungimirantemente: l’onda costituita dalle donne
uccise potrà sconfiggere, proprio con la potenza immensa della morte contro la
quale neanche l’uomo più forte nulla può, il genere maschile facendone
tramontare il potere, facendolo soccombere senza che neppure se ne avveda,
tanto sicuro di sé appare ora mentre vive sulla Terra avendo il potere sulle
donne viventi. È nell’onda minacciosa delle donne morte per mano maschile che
l’uomo potrà soccombere. Così secondo i potenti versi profetici “Io sono il
mare/ e l’onda che ti può annegare”. Ma anche “la goccia”, che sappiamo capace
di scavare la pietra, goccia uscita dalla ferita al petto, con termine evocante,
come più sopra, la crocifissione di Cristo con associazione esplicita in
successivi versi all’immagine della croce stessa.
La donna di Maria Teresa Infante è vittima sì, ma
non si rassegna e combatte con maggiore forza dai reami della morte – e della
poesia foscolianamente capace di resistere al tempo – contro l’assassino che
vuole sconfiggere con il proprio sacrificio. Non c’è richiesta di tregua, di
conciliazione, almeno non in questa lirica potente che presenta la donna in
veste non di giustizia divina cui la donna della Infante qui non si appella, e tanto
meno di quella umana, che non ha salvato la donna, ma di nemesi profetizzata
dalla donna con tutta la potenza dei millenni – o anche dei milioni di anni – di
ingiustizie, ferimenti e morti subite. Con questa arma tremenda della morte la
donna di Maria Teresa Infante riuscirà a sconfiggere il proprio assassino. Una lirica che dà alla donna
l’ultima arma, la più potente, quella della memoria storica e anche oltre perché
la brandisca e con tale memoria compia la più giusta nemesi: “io sono sangue/
il rosso che hai versato// sono la morte/ ora/ il tuo peccato.”
Peccato da espiare con la possibile sommersione
nell’onda formata dalle donne che l’uomo ha ucciso, uomo che voleva amarle e
che invece ha assassinato, onda delle donne morte che in sé hanno da sempre
rappresentato e rappresentano l’amore, quell’amore ripagato dall’uomo con
l’uccisione sul piano concreto e psicologico. La donna uccisa non perde
comunque la sua natura, non diviene volontà di rivalsa, ma si fa fieramente
forte della sua caratteristica fondamentale, intramontabile: essa è ”l’amore/
il rosso che non muore”, ossia: il rosso del sangue può essere versato e
portare la morte, ma non il rosso dell’amore, di cui è depositaria privilegiata
la donna di Maria Teresa Infante, il quale non perirà mai e che resterà il suo
contrassegno più nobile e tenace in tutto il suo passato e presente come segno
indelebile della sua presenza sulla Terra. In altri termini: proprio la sua
morte, con la quale l’uomo che la uccide ha voluto e vuole eliminarla, agirà
dunque come giustizia della memoria che porterà più ordine nelle cose umane,
questo ci dice la temibile metafora dell’onda oscura del mare, la sua voce.
Una lirica di eccezionale potenza, diversa da quelle
che, dolcissime, cantano la donna quale vittima soccombente, più debole e non
consona a fronteggiare la maggiore forza maschile, ma appunto: solo nella vita,
acquisendo al contrario la maggiore forza proprio nella morte, in quella morte
che l’uomo le ha dato illudendosi della vittoria. La volontà della donna di
Maria Teresa Infante, una donna nuova, pur nel sacrificio di sé che permane, di
non arrendersi alla sconfitta – apparente – nella sua esistenza concreta, le fa
imbracciare l’arma vincente, quella della memoria della morte ingiusta, memoria
maggiore ben più forte di quella in vita che presto scompare, quella al
contrario che regge al tempo, a tutti i tempi umani.
Questo ci comunica, alla luce dell’analisi oltre la prima superficie che parla di sacrificio della vittima, questa poderosa poesia, Rosso sangue, di Maria Teresa Infante, capace di sommuovere le coscienze nel profondo come mai prima, come la più inesorabile onda del mare mugghiante, nell’eco del terrore evocante le sinistre atmosfere di Edgar Allan Poe e non solo, come il cielo più spirituale nel contempo reso spaventoso anch’esso nella tenebra notturna affine all’oscurità del fondo del mare.
Rita Mascialino